Ultimo concerto dell’EMU Fest 2011 a Santa Cecilia, il 16 ottobre, ore 17,30. Una rassegna internazionale di Elettroacustica di avanguardia, che qua e la ci ha dato l’impressione di essere piuttosto retrò.
Programma di sala ben fatto, con l’utile accorgimento di riportare accanto al titolo del pezzo la durata in minuti e secondi (questo aiuta a capire quando applaudire, perché altrimenti non si sa che fare, e abbiamo l’impressione che gli esecutori qualche volta si divertano a farci dispetto rimanendo immoti quando invece dovrebbero lanciare il segnale). Sei composizioni in tutto. Andiamo per ordine.
“A way” di Giuliano. 12 minuti. Decisamente troppi per un brano fatto di un sottofondo elettronico e di un esecutore, austero e in nero, che ogni tanto si china a raccogliere con gran serietà da terra un tamburello, o una spazzola con cui produce qualche rumorino piuttosto infantile, e poi riappoggia tutto dove lo ha preso. Un buon esercizio per le ginocchia del maestro, meno per le nostre orecchie.
“Spire IV”di Saldicco, per trombone solo. Brano a rischio, perché con uno strumento come il trombone...Infatti, inevitabilmente, ci appare, per poi rimanerci davanti come in un documentario sull’Africa, un branco di elefantini ed elefantoni, tutti a barrire e a spernacchiare. Sonorità ribattute e amplificate da echi elettronici, di certo involontariamente grotteschi. Ci colpisce la partitura adagiata su ben tre leggii in fila. La presentazione sul programma farnetica di spire dell’elica del DNA o delle galassie contemplate dal compositore mentre (testuale) lui rifletteva dopo aver osservato a lungo l’ipnotica curva descritta dalla puntina di un giradischi. Pensa un po’ che audacia.
“Pulso de vida” di Lavastida. Solo suoni elettronici mosci, con il palcoscenico vuoto. Comincia a farsi sentire un certo torpore.
“Air play” di Pagliei. Nel momento di attaccare il brano, essendosi fatte le 18,15, cioè l’ora del vespro, tutte le chiese del vicinato si scatenano a scampanare. Questo piace al pubblico, ma mette in crisi i due esecutori-solisti ai computer, che perdono qualche minuto prima di partire con la composizione, una sfilza di suoni striminziti e noiosissimi. E qui, dobbiamo confessarlo, a noi è partita la pennichella, quindici minuti di sonno ristoratore che ci hanno messo in condizione di apprezzare il brano successivo.
“Soundboarding” di Kokoras, per flauto dolce, chitarra e fischio a coulisse (che è quello che sentiamo al circo quando il pagliaccio fa la capriola). Divertente il pezzo, per i suoi suoni non ortodossi. La chitarra con strappi di corde, slide e sberle sulla tastiera, il piffero con fischi inconsulti, l’altro con amplificazioni coraggiose. Come dicevamo, divertente, compresa la compunzione con cui i tre maestri girano le pagine degli spartiti (avremmo voluto vedere cosa c’era scritto, o forse disegnato, sopra).
“Elettra” di Fedele. Un pezzo quasi normale ottimamente eseguito dalla viola solista, e ben arricchito da sbaffi e strisciate elettroniche. Un po’ lungo anche questo, 12’, ma assolutamente tollerabile, anzi, diciamo addirittura piacevole, una parola che potrebbe anche risultare sgradita ai sacerdoti dell’elettroacustica. Ma noi osiamo, e la usiamo.
Niente sonnellino al concertone dei dodici direttori al Parco della Musica, il 19 sera. E’ un’iniziativa organizzata da Gianni Oddi e sostenuta dall’ENPALS, quasi l’unica istituzione rimasta (dopo l’assassinio dell’Imaie) che abbia voglia di tirare fuori qualche euro per la cultura.
Si tratta di una serata in cui ha suonato la gloriosa big band del Parco della Musica (la PMJO) con parecchi ospiti, tutti italiani, e sotto la direzione di dodici bandleader, italiani anche loro.
Cominciamo col dire che per noi della vecchia scuola l’idea di big band ci porta indietro di almeno sessant’anni, e vorremmo, oltre che ascoltarla, anche vederla come nei film dell’epoca: leggii con le iniziali in bianco su fondo nero, direttori in smoking, presentatore in giacca di lamè, e i suonatori in cravatta. Niente di tutto questo, purtroppo. Però ci siamo divertiti nel vedere almeno due di loro in un abbigliamento da palcoscenico: il direttore Bruno Tommaso con una acida giacca limone, e il vibrafonista Antonello Vannucchi in gilè aragosta e papillon rosso, oltre alla bella fisarmonicista Iodice in rosso lungo. Belli, e soprattutto giusti.
L’orchestra funziona bene, negli arrangiamenti c’è stata qualche polentina da cui non riuscivano a emergere le singole voci, ma in altri invece abbiamo ascoltato discorsi chiari, scanditi e originali. Lo stesso vale per gli ospiti solisti. Di questi vogliamo tirarne fuori due, interessanti per opposte ragioni. Intanto perché li separano più di cinquant’anni, che non sono pochi, Poi per come suonano. Il più giovane è l’alto sax Francesco Cafiso, ventidue anni, grandissima tecnica, tante note impeccabili, e poche emozioni. L’altro è Giovanni Sanjust, un clarinettista che col tempo diventa sempre più sobrio. Di note ne fa sempre meno, ma sempre più belle. Di persona è schivo, forse timido, fantasioso bestemmiatore. Ma quando suona diventa un angelo. E’ davvero uno di quei rari casi in cui attraverso lo strumento la persona va in ombra e in scena rimane solo l’artista. Non crediamo di esagerare definendolo un poeta dell’ancia.
Scrivi commento