Stagione Contemporanea. Parco della Musica di Roma, dal 22 settembre. La promozione: impeccabile, il pacchetto: bene incartato; adesso si tratta di aprirlo e andare a vedere il contenuto. La conferenza stampa di presentazione della Stagione Contemporanea era stata piuttosto moscia, non per il progetto, interessante, o per l’organizzazione del Parco della Musica, puntuale e corretta, ma perché i tre signori al tavolo: Fuortes, amministratore delegato; Regina, presidente; Pizzo, curatore sembravano incapaci di superare con le loro voci la soglia dell’udibile. Un’atmosfera davvero smorzata. Precipitata nel funereo con l’intervento di Einaudi che non ha il dono dell’eloquenza, e neanche quello di una conversazione mediamente vitale. Le sue lente parole escono faticosamente picchiettate di ehm, e beh, e mah soporiferi (continuiamo a pensare che la maggioranza dei musicisti dovrebbe aprire bocca solo per ficcarci dentro uno strumento).
Per fortuna a un certo punto, sotto un impossibile cappellino appare la frivola Sora Cesira, personaggio fino a quel momento a noi sconosciuto, ma che siamo poi andati a cercare sulla rete, trovando sul suo blog stupri di canzoni e video famosi, di cui lei stravolge i testi e le voci. Alcuni gustosi, alcuni banali. Il problema è forse che, una volta trovata una formula, o le si rimane fedeli, e bisogna essere dei geni per non diventare noiosi, o la si cambia appena comincia a mostrare la corda. Non riusciamo a capire in che modo possa mescolarsi a questa vicenda senza fare impazzire la maionese, ma tutto è da vedere e da sentire, e staremo bene attenti al momento.
Si comincia il 22 settembre con The Elements di Ludovico Einaudi, prima assoluta. Anche se ci eravamo ripromessi di non farlo, alla fine siamo andati. Accomodati in una buona poltrona di platea, ci troviamo di fronte al solito dilemma: riconoscenza per l’invito degli amici dell’ufficio stampa, o sacra tutela della nostra opinione? Nessun dubbio: siamo grati agli amici, ma, come sempre, ecco il nostro pensiero viscerale e libero.
Il primo colpo d’occhio è magnifico. La sala dell’Auditorium è un’immensa caverna: arcaica per i legni che la foderano tutta, moderna per i ponti sospesi dei fari e le curve fonodinamiche delle superfici. Scenografia essenziale ed elegantissima, con la sapiente esposizione di ogni percussione esistente, più qualcuna che ci è parsa inventata per l’occasione (più tardi ascolteremo anche lastre di metallo fatte vibrare nell’acqua). Cinque grandi sfere traslucide sospese (che poi vedremo salire e scendere dai cavi e illuminarsi di luci candide) e cinque solisti, quattro percussionisti della PMCE più Robert Lippok, pilota dell’elettronica. Tutti in nero, su fondo nero, con i loro strumenti scuri o incendiati di bagliori metallici sotto i fasci bianchissimi dei fari. Festosa l’atmosfera di attesa di un evento che sa già di buona riuscita. Poco a poco il teatro si riempie di un bel pubblico ben disposto. Schizzo di colore romanesco quando un burino si affaccia dalla galleria e a gola spiegata chiama un suo omologo in platea: “Aho! Poi se n’annamo a cena!” Non siamo allo stadio, ma loro non lo sanno.
Buio in sala, sapiente riaccendersi graduale di poche luci bianche in tutto quel nero ed ecco che, mentre intuiamo i cinque compagni di avventura, nero su nero, ai loro posti sul fondo, entra Ludovico Einaudi (e qui scusateci se ci ripetiamo ancora una volta sul tema dell’abbigliamento, nostra fissazione, inteso anche come rispetto per il pubblico) con addosso la solita giacchetta, la solita maglietta, i soliti jeans a cavallo basso sformati; e va a sedersi al gran coda piazzato con la tastiera, e quindi la schiena e la pelata rivolti dritti verso il pubblico. L’abbiamo visto dirigere i solisti rimanendo seduto al piano, ma crediamo che questo lo puoi fare anche se stai di traverso.
Comodi nel nostro sedile ci lasciamo andare all’ascolto, e a un certo punto, circa a metà della faccenda (che in tutto durerà un’ora e mezza) abbiamo la sensazione che ci manchi qualcosa. La musica va, molto rarefatta, molto ripetitiva, priva di filo melodico o di sviluppo armonico, anche se ricca di qualche bella sonorità, e noi a nostra volta riandiamo a un nostro momento in India, esattamente trentanove anni fa, sulle rive del Gange, al tramonto, mescolati a un gruppo di fricchettoni figli dei fiori ad ascoltare per ore e ore il sitar di qualche Ravi Shankar del posto, convinti di essere a un passo dall’illuminazione. Poi ci siamo resi conto che la scalata verso l’immenso non dipendeva dalla musica, ma dal forte quantitativo di spinelli (se non peggio) consumato durante l’ascolto.
Ecco cosa ci manca in sala: un bello spinello! Peccato, perché dopo questa raggiunta consapevolezza ci siamo trovati ad affrontare altri tre quarti d’ora di suoni rarefatti, ripetitivi, privi di filo melodico e di sviluppo armonico, ma senza nessun supporto psicotropo.
Applausi deliranti, standing ovation, richiesta di bis, concessi, e fuoruscita di pubblico felice.
E noi, che dire? Non vogliamo certo sostenere che se una composizione non contiene melodie, armonie a contrappunti non ci piace, anzi, le novità, ma quelle vere, che provano a scardinare il sistema ci entusiasmano, ci irritano, ci seminano la testa di dubbi, comunque ci fanno pensare.
Anche la musica di Einaudi ci ha fatto pensare, ma solo agli spinelli sul Gange.
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