Archeotanatologia e tanatoprassi. E poi antropopoiesi e tanatosemiotica: i termini con cui ci hanno bersagliati nell’interessante incontro di studi “Archeologia e antropologia della morte”, il 20, 21 e 22 maggio, prima all’École française de Rome, e poi nei sotterranei dello Stadio di Domiziano.
Sappiamo che ciò che non deve mai abbandonarci lungo tutta la vita è proprio il pensiero della morte. E’ quello che dà un significato alla vita stessa, che altrimenti sarebbe un insignificante seguito di insignificanti eventi, senza neanche un finale degno della rappresentazione. Poi, per quanto riguarda il dopoteatro, le teorie sono tante. Meglio lasciare che ognuno, da solo, si cerchi l’antidoto alla paura del vuoto.
E quindi, anche perché è opportuno cominciare a prepararci, abbiamo risposto volentieri all’invito, trovandoci il primo giorno in una sala che, per mancanza di condizionamento e per il torrido clima di fuori, era peggio di una fornace infernale (anticipo della punizione eterna?), per sprofondare il giorno successivo, con la sopraggiunta anomala ondata di freddo primaverile, nell’umido gelo dei meandri ipogei dello Stadio, che poi sarebbero le cantine di Piazza Navona.
La morte è l’unica storia che nessuno di noi può raccontare; è un atto biologico che ritrasforma l’essere vivente in materia con un processo che da sempre la cultura tenta di alterare, contrastare, annullare attraverso mille sotterfugi rituali. Il convegno vuole cogliere l’essenza di questa frontiera, spiegare l’insieme dei gesti e delle emozioni che ne accompagnano il passaggio. Tutto questo attraverso testimonianze, spesso esili, di genti preistoriche, storiche, contemporanee; non solo analizzando i rituali cosiddetti normali, ma anche quelli deviati.
Il gran numero di relatori, la maggior parte noiosi, ansiosi o impacciati (con un’eccezione: un professore francese, tal Henri Duday che ci ha intrattenuti per quasi un’ora con funambolismi vocali, gesti e accento alla De Funès pur parlando di cadaveri smarriti, sepolture anomale e simili argomenti tutt’altro che comici, ma efficaci se raccontati comicamente), non stavano al microfono per una disanima filosofica o religiosa del concetto di morte, ma per raccontarci come le popolazioni nordeuropee dell’Età del Bronzo ritenevano di onorare lo spirito dei loro defunti con sacrifici umani, o con quanto amore i mesoamericani precolombiani ricavassero dai femori dei loro cari uno strumento musicale: l’omichicahuaztli. Appunto, testimonianze di archeotanatologia.
Ci siamo divertiti? Anche. Quel ch’è sicuro è che, per quanto scabra e spaventosa sia la cosa, non è certo facendo le corna che la si allontana dalla mente. C’è: tanto vale affrontarla. Come: dipende da noi; di sicuro non tappandoci occhi e orecchie o cercando di spaventare gli spiriti maligni con le raganelle.
Il povero Borromini. A proposito di morte (violenta) e di Piazza Navona (chiesa di S. Agnese in Agone) capita a fagiolo il nome di Borromini, alla cui memoria e sulla cui tomba in San Giovanni dei Fiorentini, sabato 16, è stato superbamente eseguito dall’ensemble Festina Lente diretto da Michele Gasbarro, l’Officium Defunctorum di Tomàs Luis de Victoria.
Francesco Borromini, coetaneo ed eterno (ed eternamente sfortunato) rivale di Gian Lorenzo Bernini. Quest’ultimo, brillante conversatore, frequentatore di salotti, sacrestie e palazzi, pieno di soldi e di successo, certamente con un carattere capace di adattarsi a seguire i capricci di papi e cardinali, traendone, s’intende, gli opportuni vantaggi. L’altro, rancoroso, scorbutico, perennemente alla rincorsa di commissioni che spesso il rivale gli soffiava; probabilmente antipatico, comunque un rompiscatole, quindi evitato da chi invece avrebbe potuto aprirgli la via del successo.
Alla fine, amareggiato dal suo ruolo di eterno secondo, e in più tormentato da turbe mentali, insonnia e rogne varie pensò bene di infilzarsi con la propria spada e di andarsene all’altro mondo, mentre Gian Lorenzo continuava soavemente a portare a casa onori, fama e quattrini.
Collaborarono, anche, al baldacchino di S. Pietro, per il quale Bernini si prese tutto il merito e quasi tutti i bajocchi, lasciando all’altro le briciole. “Non mi dispiace che abbia hauto li denarii - pare che abbia dichiarato, deluso e deriso il Borromini - ma mi dispiace che goda l’onor delle mie fatiche”.
Difficile decidere chi era il più bravo: uno capace di fare “del marmo carne”, l’altro architetto audace e innovativo.
Ci guadagniamo noi che abbiamo ereditato da quei due litiganti una città piena di meraviglie.
P.S. Sincronismo mancato. Non è strano che la musica sia così in ritardo rispetto alle altre arti? Ci abbiamo pensato ascoltando l’Officium. Sappiamo tutti che Luis de Victoria è decisamente più vicino ai nostri anni di Michelangelo, Leonardo, Raffaello. Eppure la sua arte, comunque magnifica, è arcaica, scrive per strumenti non evoluti: un cornetto, un trombone senza campana, un organo di legno, un violone (naturalmente, più le voci); e anche la composizione è ancora lontana dagli sviluppi trionfali che invece l’architettura, la scultura, la pittura, già saldamente inoltrate nel barocco, hanno raggiunto e addirittura stanno per superare.
E’ come se la musica fosse ancora sprofondata nell’infanzia (un’infanzia piena di promesse, d’accordo) mentre il resto del mondo artistico è già più che maturo.
Inspiegabile mancanza di sincronismo.
PPSS. Questi due meravigliosi teschi capelluti e incoronati d’alloro ghignano sulla tomba del Cardinale Imperiale Josephus Renatus nella chiesa di Sant’Agostino a
Roma.
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