Per andare a ritirare una raccomandata in giacenza si passa dalle parti del Mausoleo di Augusto. Il 25, giovedì, mentre eravamo diretti appunto alla Posta Centrale, siamo stati colpiti da una visione irreale. Almeno un centinaio di scintillanti, colorate, sgargianti Ferrari erano parcheggiate tutto intorno alla fossa (chiusa da anni da una cancellata, che neanche Guantanamo) ormai fangosa e maleodorante in cui è immerso come un Titanic colpito e affondato, ma ancora coronato di cipressi e oleandri, uno dei più insigni monumenti di Roma, la tomba di Augusto, il suo mausoleo, l’Augusteo insomma.
Non si può fare a meno di notare sbirciando attraverso i ferri della suddetta cancellata la palude da cui emergono i muraglioni romani, piena di canne, potenziale nascondiglio forse di coccodrilli e piranha, certo di ranocchi e libellule. E zanzare. Neanche terzo mondo, qui ci troviamo in un ambiente selvaggio da documentario del National Geographic.
Possedere una Ferrari è senza dubbio un indicatore. Di successo economico, certo; di gusto, non sappiamo. Ma nello stesso tempo, secondo noi, è una gran seccatura: come avere un Van Gogh appeso in salotto, o dei bei vasi etruschi rimediati da qualche ambiguo mercante. C’è da preoccuparsi dei ladri che ti entrano in casa, dei carabinieri che cercano di recuperare i reperti, degli scemi che ti rigano l’auto, o dei maldestri che te la abbozzano in parcheggio. Anche della cacca di un piccione, notoriamente corrosiva. Insomma, una vita d’inferno.
Un’idea ce l’avremmo: ognuna di quelle Ferrari, quasi tutte modelli unici o comunque vintage varrà come minimo trecentomila euro. Sono cento macchine. Totale trenta milioni. Basterebbe un dieci per cento per ripulire, restaurare, rendere decentemente frequentabile il rudere imperiale. Ma chi e come glielo chiede ai proprietari? Non funziona così, vero?
The Beatles, ovvero c’ero anche io all’Adriano.
Il 26 e il 27 alla Discoteca di Stato (che adesso si chiama ICBSA, Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi. Chissà perché burocratizzare cambiando il vecchio nome che andava così bene?) Gianfranco Migliaccio ha organizzato una due giorni nostalgica del “c’ero anche io” ai concerti che i Beatles tennero a Roma. Inevitabilmente una riunione di reduci: basta un veloce calcolo. Dal ’75 sono cinquant’anni; chi c’era ne aveva più o meno venti, quindi in platea (e anche sul palco) eravamo tutti almeno settantenni, spesso ultra.
Un paio di cover band opportunamente abbigliate e imparruccate hanno suonato come tutte le cover band che si rispettino: impeccabilmente e senza permettersi sghiribizzi. Bene, ma sempre cover, e in più, se lo strumentale è inappuntabile, non lo è altrettanto la pronuncia dei testi. Ma, in mancanza dell’originale…
C’è stata la sfilata dei testimoni: belle ragazze del Piper, poi in carriera artistica, come Mita Medici, giornalisti che con vari incarichi avevano seguito la faccenda e l’hanno raccontata a immagine e somiglianza del loro carattere.
Fabrizio Zampa sdrammatizzando con gustosi aneddoti; Claudio Scarpa in bilico tra il fan e lo storico musicale; Adriano Mazzoletti, miniera di infinite informazioni, e capace di ricordare giorno, ora e luogo di tutto quello che racconta; Dario Salvatori con il piglio sicuro del conduttore di professione, ma anche con l’autoironia che gli sprizza da tutti i pori (e anche dai capi di abbigliamento).
Ci teniamo per ultimo Gianni Bisiach, il quale dopo essere stato tutto il tempo ad aspettare, sornione come un gatto in agguato, appena arrivato il suo momento è scattato.
Chi non lo ha mai ascoltato non può rendersi conto dell’implacabile macinare dei suoi racconti. Comincia da vent’anni prima, divaga su ogni nome, parentela, collegamento; divaga sulle divagazioni, salta da un argomento all’altro, ma ritrova sempre il filo. E non lo molla.
Dopo alcuni minuti di micidiale logorrea di questo inarrestabile novantenne abbiamo notato la appena accennata insofferenza del conduttore e degli altri ospiti trasformarsi man mano in una specie di allarmata preoccupazione. E poi arrivati alla mezz’ora diventare vera e propria disperazione, finché la battuta di un coraggioso: “Gianni, ti stacchiamo la batteria!” ha bloccato l’incontinente.
Danilo Rea al piano ha commentato nel suo modo elegante, giocando con i temi dei Beatles, alcuni quasi invisibili filmati muti e in bianco e nero dei concerti. Più che immagini, ectoplasmi.
Era ora di pranzo quando siamo usciti nel sole e nel benedetto vuoto dei sabati romani d’estate. Tutti al mare, e noi in città, finalmente soli!
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