Salviamo la locanda
28 settembre, Centro Studi Americani. Il fatto è questo: uno studioso, Enzo Pinci, ha scoperto che quello rappresentato sullo sfondo del Sacrificio di Isacco di Caravaggio, esposto agli Uffizi, è il villaggio di Castel San Pietro in Sabina.
Bene, direbbe qualcuno, e allora? Ce lo siamo chiesto anche noi mentre ci accomodavamo sotto il bellissimo soffitto del Salone d’onore di Palazzo Mattei a Roma in occasione della conferenza: “Caravaggio e il paesaggio ritrovato”.
Possibile che un noto esperto di restauro architettonico dedichi mesi del suo prezioso tempo a girare per le campagne all’unico scopo di individuare un paesetto che fa da sfondo a un quadro famoso, il cui valore, artistico o pecuniario, non cambia di un centesimo anche dopo la soluzione del mistero?
La risposta non c’è mai arrivata, neanche alla fine delle due ore e passa di dotte comunicazioni.
Però…però dobbiamo ammettere di esserci molto divertiti. Intanto per l’one man show del Prof. Pinci, il quale, da Indiana Jones nostrano, ci ha intrattenuti brillantemente, ricevendo alla fine applausi da red carpet, sul quando e sul come si è andata svolgendo l’avventura della sua ricerca. Ci ha informati sul fatto che Caravaggio, dopo averne combinata una delle sue, era dovuto scappare da Roma per rifugiarsi sotto l’ala dei Mattei, di cui Castel San Pietro era un feudo; sul fatto che proprio in quegli anni, i primi del ‘600, il castello era in via di ampliamento (si vedono le impalcature nel dipinto), e quindi le date coincidono; sull’altezza dei cipressi, alberi notoriamente longevi, che nel quadro sono ancora piccoli; oggi sono molto più alti, ma sono proprio gli stessi.
E ancora sull’apparizione, indicata nel dipinto da una linea immaginaria che parte dall’indice puntato dell’angelo, di una locanda ancora esistente, nella quale pare certo che il pittore sia andato ad alloggiare in quei giorni. Appassionante.
Successivo intervento di Claudio Strinati, come sempre brillantissimo e come sempre illuminante di particolari inediti. Con comica finale (lui stesso si definisce un virtuoso del ramo), quando, un attimo esatto dopo l’ultima parola pronunciata, è partito un cellulare, che ha innescato i microfoni con un disturbo che era la perfetta parodia dell’ouverture del Guglielmo Tell di Rossini (anche questa bizzarria rimarcata con eccellente senso dello spettacolo dal musicologo prof. Strinati).
Altri interventi, altrettanto gustosi, di un esperto di giardini, che ci ha eruditi sui cipressi, e di un’esperta di cantieri antichi da cui abbiamo saputo tutto sulle tele cerate che proteggevano le impalcature allora come adesso. Conclusione del presidente della Provincia di Rieti, Rinaldi, che si è impegnato a salvare, e magari a organizzarci una mostra, la Presunta Locanda di Caravaggio.
Bravi tutti, direbbe un critico. Si replichi, diremmo noi.
Illusione sicurezza
Anno 2015. Tutti viaggiamo continuamente su mezzi molto vulnerabili. Un aereo la butti giù con una limetta per le unghie: per un treno che va a trecento all’ora
basta un sasso sul binario. Le armi sono alla portata di tutti (specialmente in un posto altrimenti civilissimo il cui nome comincia con U e finisce con A, con una S in mezzo) e con quelle di
adesso non c’è neanche bisogno di avvicinarsi al bersaglio.
Questo significa una sola cosa: ogni azione anche minima richiede una protezione massima. E i costi vanno su.
“Eh, la tecnologia ha rovinato tutto. Ai miei tempi non era così. Allora sì che stavamo tranquilli!” Le voci dei bisnonni e le pagine di vecchi libri ci continuano
a rimandare immagini di un sereno buon tempo andato.
Per niente affatto. Allora come oggi, se non peggio. Qualche giorno fa siamo passati dalle parti di Monteriggioni, un tipico borgo medievale fortificato molto
pittoresco. Fatti quattro conti, tranne l’immancabile castellano e la guarnigione, ci abitavano non più di un centinaio di contadini, con le famiglie, i quali uscivano di casa al cinguettare
degli uccellini (prima immagini idilliaca fasulla) per andare nei campi a raccogliere i prodotti della terra, sani e non contaminati dalla chimica che sarebbe venuta dopo: ecco perché erano così
magri (seconda immagine idilliaca fasullissima). Però se erano un po’ in ritardo al tramonto, trovavano le porte del borgo chiuse, e se ne rimanevano fuori al freddo e al vento in mezzo a fiere e
malfattori.
Per difendersi dai quali, o da ipotetiche bande di brancaleoni che transitassero sulla vicina via Francigena, il borgo si era circondato di una bella cortina
difensiva con una dozzina di torri. 570 metri di mura (più le torri) fa 5,7 metri a carico di ogni capofamiglia. D’accordo che quello era un caposaldo contro Firenze, quindi una gran parte dei
lavori li pagava Siena, ma anche riducendo al dieci per cento, erano sempre cinquantasette centimetri di fortificazione (e cinquantasette centimetri di un muro alto sette metri e largo due
dovevano costare un bel po’ anche allora) che ogni maschio adulto doveva pagare, non avendo un fiorino, con giornate di lavoro, o grano, o porcellini da spiedo, o magari con la cessione dello ius
primae noctis della figlia maggiore al castellano.
E tutto questo per continuare a vivere da straccioni, pagando, anche se indirettamente, una sicurezza che alla prima verifica si rivelava illusoria. Tutto quel
denaro e quel tempo buttati avrebbero certamente contribuito a rendere migliore la vita di tutti. Compresa quella del castellano, che, a parte qualche fagiano in più (rischio gotta) e qualche
fanciulla nel letto (rischio stiletto, prima o poi) tirava avanti più o meno come i suoi miseri sottoposti.
Che nessuno si azzardi a chiederci una soluzione. Evidentemente non c’è, altrimenti, dall’epoca dei Faraoni a oggi qualcuno ci sarebbe arrivato.
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