Er Colosseo Quadrato
Ne ha fatte di fesserie, ma sulla scelta degli architetti non si è mai sbagliato. Mussolini, chi altro? Ce ne siamo resi conto in un incredibile pomeriggio primaverile, il 3 novembre, andando al Palazzo della Civiltà Italiana (una volta Palazzo della Civiltà del Lavoro) che adesso è sposato e di cognome fa Fendi (pare abbia accettato il matrimonio non per amore ma per soldi), però per gli amici è sempre stato e rimane er Colosseo Quadrato.
Non servono pedanti descrizioni: basta la meraviglia di questo salone con l’arredamento originale, con quei finestroni, gli archi, le statue e, fuori, la luce di Roma.
Esternato questo slancio poetico che ci sgorga dal cuore, la notizia è che finalmente (sono passati appena settant’anni) l’edificio, anche se solo in parte, e grazie a Fendi che l’ha in affitto, è a disposizione dei romani, gratis, per una piccola ma benissimo fatta mostra di disegni, quadri, bozzetti, grafici dell’epoca; insomma elementi che riportano al borioso sogno dell’Esposizione Universale di Roma (E 42, poi EUR), finito male, sappiamo come e perché, ma che, dal punto di vista dell’arte, era stato messo in buonissime mani.
Organizzazione perfetta, personale cortese, marmi e vetri lustri. E in più (e questo non è merito umano) cielo, sole e nuvole, come già detto, “de Roma”.
Meno male per noi, che in città ci sono anche i privati.
Il tormento e l’estasi
“Scrivere questo pezzo è stato un tormento e un’estasi! Il mio stesso corpo si opponeva al gesto sacrilego che dovevo compiere confrontandomi con una tradizione così imponente. Nonostante ciò la musica mi investiva come un fiume in piena”.
Ma le penserà davvero lui queste furbe baggianate, o le partorisce l’ufficio stampa? Certo, se la gente le beve, hanno ragione tutti e due.
Mercoledì 4 novembre, chiesa di S. Ignazio, ultimo concerto del Festival di Musica e Arte Sacra. Intrufolato fra i compositori veri, Bach e Mendelssohn, c’è anche Giovanni Allevi, con un brano a cui si rifà la imbarazzante dichiarazione di cui sopra: “Toccata, canzone e fuga in re maggiore per organo a canne”.
Il nostro per fortuna non suona, ma parla. E lo fa al suo solito modo: furbissimo. Appare accanto all’organo, nell’immensità della chiesa, maglietta, jeans e parrucca, e per dieci minuti (i migliori della serata) racconta al pubblico incantato la struttura della sua composizione, in una banale e nello stesso tempo pomposa terminologia scolastica, offerta dalla sua solita vocina flautata e con parole facili e suadenti all’orecchio impreparato ma disponibile a farsi imbambolare dei fedeli (e non intendiamo quelli della chiesa, ma i suoi personali). Estasi del gregge.
Poi purtroppo è partita la toccata; alla tastiera Carlo Maria Barile. Un modesto minestrone farcito di effetti di tipo cinematografico, con dentro un pizzico di Vangelis, una manciata di Morricone e molta confusione degli altri ingredienti.
Diciamo che in casi come questo, per far capire che non si tratta di aria musicale, ma di semplice aria fritta non c’è davvero bisogna della virtuosa indignazione manifestata a suo tempo da Uto Ughi.
Basta uno sberleffo.
Il supremo sacrificio
Oggi, giovedì, al Foro Romano, che conosciamo come le nostre tasche, ma seguendo un percorso che non avevamo mai visto: la rampa imperiale costruita da Domiziano per collegare il basso del Foro con l’alto del Palatino, appena restaurata e aperta.
E’ imponente, naturalmente; è spoglia ma possiamo immaginarne i marmi pregiati; è soprattutto un’altra testimonianza della maestà di quello che è rimasto della grande Roma (anche perché la parte miserabile, infetta, squallida di una città che doveva essere un inferno per i suoi abitanti poveri, con i secoli è sparita).
Finita la visita culturale, a spasso per quel giardino della storia, passiamo accanto al luogo, poi reso sacro e monumentalizzato, dove la fanciulla Virginia, oggetto delle brame di Appio Claudio, fu eroicamente uccisa dal fratello per impedirle di cadere nelle sgrinfie del lubrico decemviro.
E ci rigurgitano in gola le tante altre storie, prima pagane, poi anche cristiane, di ragazze, per le quali la sfortuna, chiamata spesso con ipocrisia supremo sacrificio per proteggere la loro purezza dal maschio infoiato, è stata quasi sempre farsi ammazzare o chiudere in convento.
Mai che a qualcuno sia venuto in mente di suggerire che, forse, era più giusto punire il prepotente invece che la vittima.
Scrivi commento