Masochismo in salsa di soia
Venerdì 6 novembre, Istituto Giapponese di Cultura: Concerto per trio di strumenti tradizionali: koto, shakuhachi e shamisen.
E’ inutile: ci ricaschiamo ogni volta. Forse è la voglia di approfondire, magari è anche un po’ di snobismo, nella migliore delle ipotesi un pizzico di curiosità. In realtà sospettiamo che la diagnosi giusta sia masochismo.
Perché la conosciamo la musica giapponese (quella tradizionale, naturalmente). E’ diversa da Mozart, ma anche dal jazz, dall’opera o dal liscio. I tempi di percorrenza sono micidiali. I timbri degli strumenti e delle voci sono al di là della bellezza o bruttezza: sono estranei. Temi melodici forse ci saranno, ma è impossibile identificarli. I ritmi, come mai ci suonano zoppicanti?
Il problema del concerto a cui abbiamo assistito è che abbiamo trovato davvero misero, anche se esotico, lo shamisen, una chitarrella a tre corde montate su pelle di serpente (così scriveva il programma di sala, mentre invece il solista presentando lo strumento ha detto pelle di cane, poi ha aggiunto imbarazzato: “Scusi!”; si vede che qualcuno gli aveva fatto sapere che dalle nostre parti i cani non si mangiano e non ci si fanno strumenti). E limitato, anche se suggestivo, lo shakuhachi, un piffero a cinque buchi. E monotono, anche se più facile da ascoltare il koto, una specie di arpa a tredici corde. Per non parlare del canto (con parole per noi incomprensibili, e questo è ovvio) tanto gutturalizzato che più che note sembrano conati. Certo: altre tradizioni, altre culture, altre civiltà.
E allora, visto che noi, figli di Bach e di Mozart più o meno lo sapevamo, c’era bisogno di una conferma? Ecco, la risposta a questa domanda non ce l’abbiamo.
Dev’essere proprio masochismo.
Masochismo in galleria
Michelangelo Pistoletto alla Galleria Mucciaccia. Pareti da cui si affacciano personaggi fotografati in grandezza naturale su un fondo specchiante, ovvero, per essere precisi, un riporto fotografico su carta velina applicata su lastra di acciaio inox lucidata a specchio. Il primo di questi specchi è del 1962. “Nato per coinvolgere lo spettatore all'interno del quadro, sottolineare l'interazione e la cooperazione tra autore e fruitore, diventare il punto d'incontro tra visibile e invisibile, espandere la capacità della mente fino ad offrire la visione della totalità” Ipse dixit.
Ok, l’idea era nuova. Il problema è che dopo cinquant’anni stiamo ancora lì. Sono diversi i personaggi fotografati, certo, ma la trovata rimane la stessa. Ora, non c’è dubbio che ogni artista ha la sua cifra che lo caratterizza e si ripresenta per tutta la sua vita professionale, però di solito c’è anche il suo lavoro, artistico naturalmente. In questo caso, l’idea c’è, d’accordo, ma il lavoro dell’artista, inteso nel senso della mano creatrice che spennella, colora, mescola, insomma crea materialmente l’opera (un po’ come, diciamo, Giovanni Bellini che in fondo faceva sempre le stesse madonne, ma se le ridipingeva a mano ogni volta, e come gli riuscivano bene!) ci sembra davvero troppo ridotto. E’ un tipo di produzione che, riconosciuta la paternità dell’idea, può essere, anzi con ogni probabilità è realizzata da chiunque disponibile in bottega in quel momento. E allora l’artista?
Forse siamo solo dei parrucconi qualunquisti.
Masochismo rutiliano
Beh, in questa corsa al massacro non potevamo farci sfuggire, venerdì 13, l’incontro a Spazio 5, condotto brillantemente dal dermatologo Massimo Papi sul tema: “Un diavolo per capello: essere rossi”.
Entrati in sala sereni e curiosi di saperne di più, avendo parecchi parenti stretti portatori di rutilismo (bella parola, eh? Significa semplicemente avere i capelli rossi) ne siamo usciti affranti.
Ci hanno fatto sapere che siamo condannati con quasi assoluta certezza a macchie epidermiche, e passi; discheratosi, e bisogna starci più attenti; e poi, tanto per gradire, melanoma, un tumore della pelle molto aggressivo e potenzialmente letale. Inevitabile, ripetuta condanna per aver preso troppo sole senza protezione in gioventù. Lo sapevamo che prima o poi sarebbe arrivato il conto.
Anche in questa occasione abbiamo acchiappato qualche notiziola curiosa: 1. Il gene dei capelli rossi è apparso circa ventimila anni fa, che è un battito di ciglia nella storia dell’evoluzione umana, e si prevede che verrà riassorbito estinguendosi entro pochi secoli. 2. I rossi non sono più del tre per cento dell’umanità. 3. Pare che siano più reattivi al dolore e quindi abbiano bisogno di anestesie più forti. 4. Per ultimo, oltre al fatto di essere da sempre considerati diversi e quindi sottoposti a sberleffi da piccoli e a persecuzioni da grandi (compreso il rogo sotto l’inquisizione, soprattutto le donne, per sospetta stregoneria) si trovano al giorno d’oggi, e questo naturalmente riguarda solo gli uomini, a non essere neanche considerati come donatori dalle banche del seme, perché tanto il seme dei rutiliani non lo vuole nessuno.
Bella beffa.
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