Una bottiglia di acqua minerale. Per aprirla bisogna svitare il tappo di plastica. A un certo punto dell’operazione si sente sotto le dita un cric e dal tappo si stacca una fascetta che rimane infilata sul collo della bottiglia. Quella, per il cliente, è la garanzia che prima la bottiglia era intatta; adesso che il sigillo è rotto e non può più essere riattaccato, la bottiglia non è più la stessa.
Sarà frutto della nostra mente malata, ma le antiche colonne di marmo che si drizzavano nella Roma imperiale e adesso riempiono chiese e palazzi, secondo noi avevano anche loro un sigillo di garanzia. Che era anche ornamento e misura di rinforzo: l’imoscapo.
Cominciamo dall’inizio. I cilindri arrivavano dalle cave, in qualche parte del Mediterraneo, Grecia, Turchia, Africa, appena sbozzati in modo da pesare il meno possibile, ma senza sporgenze troppo delicate che potessero rompersi in viaggio. Naturalmente avevano già accennati alcuni elementi, come appunto imoscapo, sommoscapo, scanalature, mensole sul fusto.
Poi, scaricati al porto sul Tevere, finivano sotto gli scalpelli dei numerosissimi artigiani che dovevano lavorare a pieno regime tutte le ore di tutti i giorni dell’anno: immensa era la quantità di marmi che arrivava a Roma.
Una volta quasi complete, con macchinari di semplicità estrema ma di alto rendimento, basati sulla forza degli schiavi e magari di qualche cavallo, le colonne erano piazzate in verticale sui loro piedistalli.
A questo punto arrivava il trattamento di bellezza definitivo fatto di raschiature finissime, di limature microscopiche, di lucidatura perfetta.
In particolare sul già citato imoscapo, che una volta terminato l’intervento, esibiva un bordino molto elegante, molto proporzionato e soprattutto molto fragile.
Finché la colonna se ne stava immobile al suo posto, come per fortuna ancora adesso nel pronao del Panteon, non succedeva niente. Garantita era la sua verginità di fabbricazione e di erezione. Ma bastava spostare dalla verticale, anche di pochissimo, il peso del fusto, e la prima cosa che saltava era appunto questo elegante e fragile bordino.
Naturalmente tutte le colonne romane riutilizzate dal medio evo in poi, o erano cadute per conto loro nel corso dei secoli, oppure erano state buttate giù apposta, magari su un mucchio di terra per salvare il salvabile. Chiaro che in quell’epoca buia non esistevano né i meccanismi né l’audacia per delicati sollevamenti e trasporti verticali. Perciò la cicatrice della violenza era sempre la stessa, l’imoscapo a pezzi.
Nell’epoca delle chiese primitive, quando tutti erano poveri e si era anche dimenticata l’arte del marmo, la colonna rimaneva fratturata come l’avevano trovata (chiesa di S. Maria in Monterone), con buona pace dei fedeli, che non se ne curavano e probabilmente non sarebbero neanche stati in grado di capire.
Poi arrivano tempi migliori, ci sono più soldi, rinasce il gusto del bello, la volontà di ornare la casa del Signore (e i palazzi dei signori) con arte e ricchezza. Ma si è persa ogni notizia delle cave antiche, e poi non c’è più un sistema di trasporti.
Bisogna continuare a scavare nella discarica dell’Impero, tirar fuori le vecchie colonne cadute e a rimetterle in piedi. Adesso però non ci si accontenta più dei bordi sbocconcellati. E allora il sigillo di garanzia infranto viene ricostruito con frammenti simili che tentano di camuffare il danno (Palazzo Braschi). Senza mai riuscirci proprio del tutto.
Dopo questa bella tirata seriosa e semiprofessionale, e prima di andare al Circo Massimo per la sfilata del compleanno, abbiamo voluto regalarci ancora una volta il mirabile fenomeno del faro solare al Panteon.
Il 21, giorno natale di Roma, a mezzogiorno, che con l’ora legale diventa l’una, il sole entra dall’apertura in mezzo alla cupola e va a centrare con precisione sbalorditiva il grande arco d’ingresso, con un effetto occhio di bue da un milione di watt.
Per quanto facilmente spiegabile con due calcoli astronomici, il risultato è pura magia. Guardare per credere.
Finalmente il corteo. Accompagnati da squilli di buccine, rulli di tamburi e cori di vergini gli impolverati (e abbastanza improbabili) figuranti avanzano verso il Teatro di Marcello. Sono le gloriose legioni di Cesare che venti secoli fa non conobbero sconfitta.
Oggi però c’è qualcuno più tosto di loro. Un’inviperita suocera in rosa con bouquet, mentre la vestale in primo piano si aggiusta il peplo, ingaggia una furibonda battaglia con la vigilessa, perché lei deve per forza passare per raggiungere la futura nuora nella chiesa che sta dall’altra parte della strada.
E la vince: il corteo storico si ferma, la vigilessa sposta la transenna e la macchina con dentro la bisbetica indomita avanza trionfale verso la cerimonia nuziale
fra gli applausi dei turisti (e dei legionari).
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RDB (domenica, 24 aprile 2016 23:23)
Una bella lezione, divertente anche la parabola del tappo della bottiglia di acqua minerale e l'imoscapo della colonna. Ora ho un'altra cosa da osservare,quando le guardo, per capire se sono state spostate o no. Ne inventi sempre una, tenacia e fantasia. Bravo!
Francesco Casaretti (lunedì, 25 aprile 2016 11:26)
Istruttivo e divertente. Questa volta però più istruttivo che divertente. Devo confessarti che mi manca un po' quella meravigliosa salsa velenesa con cui condisci le tue uova. Non è che stai diventando troppo buono?