Il Porto di Roma, oggi
Venerdì 15 luglio, dopo un paio di settimane di aria pesante e temperature sahariane, all’improvviso si scatena un vento furioso e il termometro scende di una quindicina di gradi.
Quale momento migliore (o peggiore, a seconda dei punti di vista), comunque determinante, per andare a passeggiare al Porto di Roma?
Il Porto turistico di Roma, a Ostia, è evidentemente una speculazione immobiliare, non sappiamo di chi, e neanche perché proprio lì; comunque non ci sembra molto riuscita dal punto di vista commerciale, mentre da quello architettonico andiamo meglio: edifici bassi, moduli classicheggianti ripetuti; materiali non pessimi.
Ci colpisce il fatto, un richiamo storico forse involontario, che il porto di oggi occupa uno spazio quasi sovrapposto a quello che venti secoli fa era il porto di Roma imperiale.
Eccoci qua. Immensi parcheggi sopraelevati completamente deserti ma puliti di linee e di manutenzione. File di lampioni di una simmetria inquietante. Insegne ammiccanti, baretti vuoti, gelaterie incongrue. E quel tintinnio nevrastenico delle sartie sbattute dal vento contro gli alberi delle barche, che adesso non sono più di legno, purtroppo, ma di alluminio, molto più sonoro. Immaginarsi un centinaio di campanelli scatenati tutti insieme. Per noi gente di terra, insopportabile.
Sotto un cielo carico di tempesta si entra in un quadro di De Chirico cent’anni dopo. Identica la solitudine, gli spazi vuoti, il rigore ripetuto delle geometrie architettoniche. Elementi che potrebbero sembrare scostanti e disumani, e invece tutti insieme fanno il fascino del posto.
Eravamo gli unici a girare come dei mentecatti, sferzati, a volte addirittura spinti in avanti dal vento, e questo di certo ha determinato in noi l’impressione di vivere un momento prezioso e probabilmente irrepetibile.
Chissà che differenza in un’umida domenica di agosto, con le famiglie scatenate, complete di pupi maleducati.
Preferiamo non saperlo mai.
Il Porto di Roma, ieri
Pochi giorni prima, in piena calura, eravamo in giro per l’antico Porto di Claudio, poi ampliato da Traiano, oggi completamente interrato. Anche qui, grande solitudine, ma non di tipo moderno. Qui siamo in un cimitero. Grandioso, ma sempre un luogo di cose morte.
Nell’ottocento tutta la zona era diventata il parco Torlonia, un altro degli innumerevoli accaparramenti intesi a sollevare lo status di questa famiglia straricca e straingorda. Fra gli archeologi si mormora ancora oggi che il principe Torlonia, con la sua smania di scavare in cerca di statue per la collezione di casa, abbia fatto più danni di un’orda di lanzichenecchi.
A guardarsi in giro affiora il rimpianto di una grandezza forse vera, forse solo raccontata, delle cui proporzioni non riusciamo a renderci conto.
Se si pensa che era il porto della più grande città dell’antichità si sbalordisce alla piccolezza degli spazi, evidentemente proporzionati alle misure di navi da carico, poco più lunghe di una gondola.
Le operazioni portuali dovevano essere una inarrestabile frenesia di formiche umane, ognuna con il suo sacco o la sua anfora in spalla. Mentre adesso i porti funzionano con gru e container e la quantità di merce spostata in un giorno da una macchina equivale al lavoro di centinaia di schiavi per mesi. Ma allora gli schiavi erano gratis: forse è per questo che i romani, sotto altri aspetti costruttori e tecnici abilissimo, non scoprirono il vapore. Non ne valeva la pena.
Com’è romantica l’immagine dell’edera sui muri, mentre si cammina sull’erba, dove una volta c’erano le darsene e i canali. Anche se a guardare meglio si scopre che sono state proprio le sue radici, romantiche sì, ma mortali, che hanno sgretolato le volte e fatto precipitare gli archi.
Quel pomeriggio due elementi hanno continuamente fatto capolino distraendoci dal viaggio grandioso e funereo nel passato, in cui eravamo immaginificamente immersi.
Il primo, bello e vivifico: il rombo dei jet in atterraggio e in decollo dal vicino aeroporto; suggestione di altri viaggi, altri porti (aerei e non), altre genti, altre civiltà.
Il secondo, invece, pesantemente allusivo all’inefficienza dell’oggi nel quale ci muoviamo: un modernissimo, anche esteticamente azzeccato, bungalow destinato a toilette, la cui civile funzione era annullata da un eloquente cartello: “Fuori servizio per mancanza di personale”.
A che serve, ci siamo detti, un servizio fuori servizio?
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Sophie Marland (domenica, 24 luglio 2016 19:39)
Bueno. Grazias
RDB (lunedì, 25 luglio 2016 01:58)
Oggi tutto mi sembra "un servizio fuori servizio". Due bei posti, uno lo conosco e condivido le emozioni, l'altro non lo conosco ma ne ho intuito le emozioni dalla tua scrittura che sta diventando molto romantica. Ancora una volta la tua foto è più bella della mia. Equilibrio e colore. Perfette.
Francesco Casaretti (martedì, 26 luglio 2016 19:28)
Che bel blog questo sul Porto di Roma! E' allo stesso tempo racconto e saggio! Stupendo!