E’ prima di tutto la soddisfazione di scoprire un rudere dimenticato, o un sentiero appena tracciato che zigzaga fra gli archi di un acquedotto. Ma non solo quella. Ce n’è un’altra, di natura meno culturale ma altrettanto sfiziosa: lo spuntino sul posto.
Non c’è niente di più bello, a metà di una torrida giornata estiva, che andarsene in giro praticamente soli per i siti archeologici minori, quelli poco frequentati dai turisti tradizionali, presente solo qualche coraggioso vichingo con valkiria al seguito.
Di solito a quell’ora i turisti nostrani stanno in trattoria con i piedi sotto il tavolo, davanti a una bella carbonara. Poi siesta in albergo e verso sera si comincia a interessarsi di arte.
L’archeologo dilettante si fa un punto d’onore di scegliere i posti più assolati in assoluto, di aspettare il momento più ardente della giornata, quello in cui la mentuccia profuma di più, le cicale cantano più forte, l’alloro cede all’aria tutto l’aroma delle sue foglie. E poi buttarsi all’avventura, magari i più prudenti con un cappellino in testa, ma niente borraccia o panini imbottiti.
Perché sul posto, a saperla trovare, c’è, appunto, la ricompensa dell’archeologo dilettante.
Abbarbicati ai mattoni del circo di Massenzio sull’Appia Antica, grappoli di gustosissime more di rovo. Lungo l’Acquedotto Felice, melograni. Nel punto in cui l’Acquedotto Claudio emerge da sottoterra come un orgoglioso drago di tufo c’è addirittura un boschetto di fichi neri e bianchi.
Alcune di queste piante sono spontanee, altre sono avanzi di frutteti che fino a non molto tempo fa erano coltivati con la più naturale indifferenza, fra ninfei imperiali e torri medievali, da contadini o da frati di qualche convento proprietario dell’area.
Per poi essere abbandonati allo spopolamento, anzi al vero e proprio naufragio della campagna romana, affondata dalla malaria e dal latifondo improduttivo, e alla fine cedere i loro frutti avanzati alle sgrinfie di visitatori un po’ ecologi e un po’ ladruncoli. Noi, insomma.
E’ davvero un privilegio unico gustare, appoggiati a un rudere caldo di sole, un fico maturo intiepidito dallo stesso sole che ne esalta lo zucchero. Come fauni del secolo ventunesimo convinti di vivere due millenni fa.
Certo, sotto e intorno agli archi passano i treni diretti a sud. Sopra le nostre teste volano gli aerei decollati da Ciampino. Sono rumori moderni che hanno comunque un loro arcaico morbido avvicinarsi e allontanarsi, un loro crescere e calare ampio, pieno di echi, che non ferisce l’orecchio all’improvviso come un colpo di claxon o una frenata.
Sono l’aggiunta artificiale all’ambiente ancora naturale della periferia archeologica miracolosamente sopravvissuta insieme alle cicale, alle gazze, alle cornacchie.
Invece, e meno male, da queste parti non ci sono quei minacciosi, enormi gabbiani diventati ormai padroni del centro storico.
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RDB (domenica, 14 agosto 2016 17:17)
Che dire, fantastico.
Il serpente ha definitivamente abbassato la lingua lasciando il posto alle sensazioni poetiche del Cavaliere.
Foto bellissime e altrttanto poetiche come la scrittura.
Leggendoti si prova invidia del tuo solitario coraggio di scaldarti al calore delle pietre antiche gustando frutta accaldata.
Godiamo il Cavaliere prima che il serpente si svegli.
anna adami (domenica, 21 agosto 2016 11:31)
e' troppo simpatico!!! mi piacerebbe conoscerla di persona. anna
Francesco Casaretti (domenica, 21 agosto 2016 18:07)
Una puntata "fichissima" che ho gustato con molto piacere