Quasi venti secoli sono stati necessari per apprezzarli come opere d’arte, unici per la robustezza, per il giusto inserimento nel panorama, per la capacità di trasformare l’utilità in bellezza. Sono gli acquedotti romani, con i loro inseguimenti di archi su e giù per la campagna dell’Urbe.
Non è difficile immaginare, all’epoca, i mugugni dei signorotti romani, proprietari dei terreni su cui il tale imperatore o il talaltro console aveva deciso di far passare il tracciato del nuovo acquedotto. Li sentiamo protestare contro quelle diavolerie moderne ingombranti e volgari che gli riempivano il panorama e gli facevano calare il valore degli iugeri quadrati; chi aveva bisogno di tutta quell’acqua, quando bastava una piccola anfora presa dal pozzo per lavarsi gli occhi al mattino?
Come non è difficile ricostruire (per questo ci sono gli archivi della Reverenda Camera Apostolica, diventata nel tempo proprietaria degli acquedotti) l’indecente commercio di pietre, travertini, tufi, insomma tutto quello che componeva ogni singolo arco, venduto, appunto dalla Camera Apostolica ai demolitori, timidamente all’inizio del Medio Evo, poi sempre più sfacciatamente fin quasi al settecento. Hai voglia a definire il rinascimento e il barocco periodi di splendore e civiltà! Per l’arte nuova, forse, non certo per la conservazione dei monumenti antichi, che venivano buttati giù senza tanti complimenti appena serviva del materiale qualsiasi.
Un modo perverso di barattare la grandezza di Roma con piccole esigenze quotidiane; talvolta anche progetti importanti, ma senza pensare che si stava distruggendo la storia.
Purtroppo è proprio nella bellezza dei manufatti la loro condanna. Un moderno pilone di cemento, dopo qualche anno di abbandono si sbriciola e diventa non solo inservibile, ma anche brutto.
Un arco dell’acquedotto Claudio fatto di conci perfettamente tagliati nel tufo rosso e grigio, di cornicioni in travertino, di lastre squadrate, faceva gola perché tutto poteva essere riutilizzato.
Tanto è vero che in mezzo alla campagna si trovano, intatti perché nessuno li voleva, gli speroni costruiti in mattoni a rinforzo degli archi originali, quando erano pericolanti, con ancora evidente l’impronta in negativo dei massi di tufo che erano destinati a sostenere.
I mattoni scartati; i massi, invece, accuratamente scalzati e predati.
Oggi c’è un fatto modernissimo che smuove le viscere dei puristi naturisti (che secondo noi spesso sono solo parrucconi attaccati al passato e fieri nemici del nuovo) e provoca la stessa reazione che abbiamo appena attribuito al tipico latifondista romano contro gli acquedotti.
Solo che nel caso di questo marchingegno tecnologico non c’è da aspettare duemila anni per apprezzarne l’estetica, perché è già bellissimo ora.
E’la pala eolica.
Un attrezzo di indubbia utilità, che ci si manifesta non con la massiccia robustezza dell’acquedotto romano, ma con la leggerezza di una struttura del futuro grazie alla sua eleganza, l’esilità, la perfetta semplicità dei suoi elementi.
Il pilone è lungo, snello e bianco: non può non andare bene con il verde del bosco, con l’azzurro del mare, con l’ocra della sabbia. Le pale dell’elica sono lunghe, snelle e bianche come le ali di un albatros, e chi mai potrebbe dire che un albatros non sia l’eleganza fatta animale? Il suo ronzio è quello di un milione di zanzare; sarà anche forte, ma non è certo innaturale.
Insomma è una macchina che quando sta ferma è nobile come un albero. Quando gira guizza come un uccello. E quando la si guarda ispira con la sua armonia come un’opera d’arte.
E in più non inquina come una centrale termica. Non basta?
PS. Ferragosto a Roma. Dopo aver raccontato il passato glorioso e anticipato il futuro radioso, una parola sul presente pidocchioso. Corso Vittorio Emanuele, una delle arterie più importanti della città, che collega Piazza Venezia con il Vaticano (i due poteri), quindi una vetrina per tutti. Oggi naturalmente (è Ferragosto) vuota di traffico e di pedoni.
Un giardiniere sconsiderato, probabilmente in forza al Comune, ha scelto questa nevralgica isola in mezzo alla carreggiata per piantare un alberello, futuro dispensatore di fresca ombra al pellegrino ed estetico sollievo per l’occhio del passante.
Ottima idea. Naturalmente, come in tutto, oltre alla progettazione servirebbe anche la manutenzione.
Eccola.
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RDB (lunedì, 22 agosto 2016 00:00)
Assolutamente belli e utili. Conosco bene gli acquedotti alla cui ombra sono crescuta, meno le pale, ne ho viste poche, ma la cosa più straordinaria è l'aiula. Domani mattina corerò a vederla, prima che sia rinverdita, dalla vergogna.
Belle le foto.
Carlotta (martedì, 23 agosto 2016 01:44)
Sono contenta che ti piacciano le pale eoliche, piacciono molto anche a noi. Ne abbiamo vaste distese non tanto lontano da Seattle, quando le vedi contro il cielo blu e i prati verdi sembrano venire da un altro mondo... E ci puoi camminare intorno, o sotto, alcune le lasciano distese a terra, cosi' capsci come sono fatte... :-)
Francesco Casaretti (lunedì, 29 agosto 2016 11:04)
Molto interessante e stimolante il confronto, anche se penso che le pale eoliche non resisteranno duemila anni e nemmeno duecento. Forse già tra venti anni saranno superate...
Elvira Amabile Coppola (mercoledì, 31 agosto 2016 10:26)
Sono d'accordo su tutto. Anche sulla bellezza delle pale eoliche. Difatti mi sono sempre stupita dell'ostilita di tanti. Il piu veemente Vittorio Sgarbi, che peraltro apprezzo e stimo. Ma trovo ingiustificata la sua avversione verso le pale.
Paola Atz (mercoledì, 31 agosto 2016 16:45)
Quando ho cominciato a leggere ho pensato subito alle pale eoliche e alla ciecita di chi le demonizza e non vede gli innumerevoli cartelloni che invadono le strade