PPP + P

PPP + P

L’ultima P è quella di Popolizio, Massimo, regista di “Ragazzi di vita”,  uno spettacolo teatrale tratto dal ben noto romanzo di PPP, con il quale siamo stati intrattenuti al Teatro Argentina per la prima del 26 ottobre.

Il vero protagonista della serata è stato però il lampadario del teatro, un mostro di parecchi metri di diametro, parecchi quintali di peso, appeso parecchio in alto che, pochi minuti dopo l’inizio dello spettacolo, si è messo a oscillare paurosamente.

Tutti fermi, luci accese e suspense in sala. Il terremoto! Infatti, era una delle scosse di assestamento che ancora continuano.

Il pubblico di romani, che, come è noto, tende all’indifferenza di fronte a qualunque cosa, non ha fatto una piega; si sono svuotate le poltrone immediatamente sotto l’oggetto oscillante, come se da un affare di quel genere, staccatosi dal soffitto, ci si potesse aspettare una caduta in rigorosa verticale. Qualcuno è andato a rifugiarsi nei palchi; la maggior parte dopo pochi secondi ridacchiava e faceva capannelli.

A un certo punto, in seguito a una specie di trattativa fra gli organizzatori che si agitavano in un balletto non programmato sul palco lanciando proposte, e il pubblico che sembrava decisamente esilarato in sala (sempre per la capacità del romano di trasformare una potenziale tragedia in una più che probabile farsa), si è deciso di riprendere la recita.

E qui sono cominciati i guai veri. Nel senso che è partita una tirata, senza intervallo, di circa due ore di una enunciazione urlata, ma urlata da fare male alle orecchie, piena di “mortacci tua”, “stronzi”, “cazzi”, eccetera, decisamente esagerati come carico, anche se rigorosamente (ci hanno giurato) fedeli come numero e distribuzione a quelli del testo di Pasolini.

Sapevamo benissimo trattarsi di storie di borgata e quindi non ci si doveva aspettare un linguaggio forbito. Evidentemente è stato l’aumento dei decibel a provocare un’equivalente diminuzione della nostra capacità di tolleranza.

Insomma, tutto all’insegna del troppo (il quale, come è noto, stroppia). Troppe macchiette: il frocio troppo frocio, il riccetto troppo riccetto, il ciccione troppo ciccione; le canzoncine da avanspettacolo (una trovata di regia che poteva essere curiosa) tornano troppo spesso in scena; il romanesco dei dialoghi diventa sottilmente irritante quando ti permette di capire che l’attore, il quale romano non è, l’accento lo recita, e si sa che un accento funziona solo se è incistato (e questa potrebbe essere davvero una nostra fisima); il popolaresco dei ragazzi (tanti e tutti, giustamente, in mutande) è contraddetto spesso da mossette e corsettine che sembra di vedere un balletto sulle punte.

In più, scelte discutibili, come la musica di sapore arabo che accompagna la scena dello scippo in tram. Ci pare che nel sottoproletariato romano dell’epoca la multietnicità fosse ancora ben sepolta nel futuro.

Una “Marana Story” de noantri.

Non è difficile intuire che lo spettacolo non ci ha entusiasmato.

Tranne per la scena del lampadario. Quella sì un vero pezzo di teatro. Altro che “Il fantasma dell’opera”!


A proposito di lingua

Venerdì 28, senza troppa convinzione, andiamo alla Minerva Auctions, sala d’aste a Palazzo Odescalchi, location sontuosa e nello stesso tempo improbabile per l’evento: la presentazione di “Un italiano vero” di Giuseppe Antonelli.

Una situazione esattamente opposta alla precedente. Parlare soft e raffinato, ma non incipriato. Riferimenti garbati e sottili all’attualità e alle sue espressioni. Battute su acronimi e capricci rintracciabili in rete.

Informazioni talvolta scoraggianti, talvolta rassicuranti: un terzo dei ragazzi italiani non è in grado di leggere e capire compiutamente un articolo di giornale; mentre invece la presenza di parole anglosassoni nella nostra lingua è, contrariamente a quello che temono i parrucconi, appena del due per cento.

E a proposito del dialetto: il rifiuto degli anni del dopoguerra, quando gli italiani sedotti dalla TV si sforzavano di parlare solo in lingua, ripudiandolo come cascame di un’epoca in cui erano dei morti di fame. Adesso sta ritornando, affiancato alla lingua di tutti, perché non ci se ne vergogna più.

Ci è parsa una conferma che nello spettacolo di Popolizio non era l’insistito romanesco a irritarci, ma il volume a cui ce lo sparavano addosso.

Siamo tornati a casa con il libro sotto il braccio e ce lo stiamo leggendo convinti e di gusto.

 

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Commenti: 2
  • #1

    RDB (domenica, 30 ottobre 2016 18:47)

    Certo il teatro non può competere con il terremoto, ma entrambi sono devastanti.
    Solo che per fortuna il terremoto succede ogni tot di anni, il teatro devastato lo subiamo da ormai troppo tempo. Abituati alle macerie non ci facciamo più caso. Se ci sta un mezzo nome anche se è polverosso, approssimativo lo ritroviamo nei teatri stabili della città.
    Siamo dei terremotati nell'anima prima che negli edifici.
    Ci auguriamo che presto la città si rialzi da questo disastro. Nulla di bello solo archeologia.

  • #2

    francesca (martedì, 01 novembre 2016 09:45)

    Non ho visto lo spettacolo di Popolizio, ma ne ho ascoltata una lettura alla radio. Ovviamente il mezzo non permette urla, ma le intenzioni si sentono benissimo. E la lettura della morte di Tommasino in Ragazzi di vita, così romanesca, così piccolo-borghese, come quella di chi cita una parodia quasi di un dialetto che non gli appartiene, di un mondo che non gli appartiene e che giudica, non mi pare avesse proprio nulla a che vedere con Pasolini che invece ne fece la testimonianza di una lingua che descriveva un mondo che non era stato descritto. Sarebbe bastato ri-vedere Accattone. O ricordare che Pasolini non apprezzò la interpretazione di Magnani in Mamma Roma proprio perchè piccolo borghese. Bravo