Circolo degli Scacchi
L’invito ci arriva via e-mail, con giorno e ora della presentazione, ma senza indirizzo. Alla nostra richiesta di più precise informazioni ci si risponde che chi è invitato al Circolo degli Scacchi si presume che sappia dove deve andare. Appunto: Snob & Chic.
Specchi incorniciati da stucchi in cui si specchiano altri stucchi riflessi in altri specchi, e oro e pennacchi e stendardi...è la decorazione superbaroccoccò di Palazzo Rondinini (1750) nei cui saloni si adagia il Circolo.
Il valore storico è fuori discussione: è uno dei pochissimi palazzi nobili della città che è rimasto sempre uguale, come architettura, decorazione e riutilizzo dei marmi antichi. E in più è curato, bene illuminato, perfino nell’ingresso ornato da un bacino verde di capelvenere e colorato di orchidee, che non ha quell’aria catacombale da magazzino abbandonato tipica degli altri antichi androni nobiliari, dovuta ad abbondanza di polvere e scarsità di watt.
Naturalmente, obbligo di abito formale, quindi tutti impinguinati in cravatte, giacche e pantaloni blu d’ordinanza.
L’indigestione estetica provocata da quel sovraccarico di ornamenti è forte, anche perché ulteriormente insaporita dall’abbondante spolverata di muffa dell’elemento umano.
Ma, colpo di bacchetta magica, il libro presentato è invece verde e fresco.
Si tratta di “Andante fra le mura”, preceduto l’anno scorso da “Adagio per giardini” e che sarà seguito, a quanto pare, da un “Allegro con spirito”. Evidente l’impostazione da suite musicale di questi volumi, che trattano, con abbondanti foto, di giardini storici e privati e, per quanto riguarda il terzo tomo, ci aspettiamo un accurato resoconto di locali all’aperto in cui oltre ai fiori, girino robusti bicchieri di Gin Tonic o di Negroni. Siamo a Roma, naturalmente: entro le mura per il primo volume, fuori per il secondo, e per il terzo si vedrà, ma prevediamo di salire anche su qualche terrazza.
Le autrici sono Marta Salimei e Ida Tonini, due signore il cui garbo, eguale all’eleganza delle piante da loro descritte, ci ha riempito i polmoni di clorofilla. Gliene siamo grati.
Basta un niente…
per precipitare dalle sublimi altezze del Palazzo al basso livello dei piedi sporchi e delle unghie malandate di una donna, in questo caso di una Madonna. Quella dei Pellegrini dipinta da Caravaggio nella chiesa di S. Agostino.
Eh sì. Siamo passati a un altro argomento. Si tratta del mensile incontro della DermArt, una rassegna condotta da Massimo Papi e che, come dice il nome molto ben scelto (potrebbe essere quello di un prodotto di successo per la pelle) va a fare le pulci (!) al rapporto fra arte e dermatologia.
Stavolta eravamo lì per farci raccontare le “Patologie delle unghie nell’arte”.
E quindi giù con micosi, striature, pallori, unghie a cucchiaio, fungine, rosicchiate, tutti particolari che caratterizzano spesso i modelli popolari di quadri di qualche secolo fa, quando i poveri in cornice erano davvero quasi tutti malati o denutriti o malnutriti.
Ci si è chiesti se Caravaggio, nel dipingere le mani o i piedi della sua Madonna, come quelli di tanti altri personaggi dei suoi quadri, piedi o mani sempre sporchi e spesso con unghie evidentemente patologiche, facesse un ritratto accurato, senza rendersene conto, anche delle patologie che all’epoca erano diffuse fra quasi tutti i suoi soggetti presi dal popolo.
Oppure se invece ne fosse consapevole e le attribuisse ai suoi personaggi, magari forzando la realtà, per descriverne più pesantemente ma accuratamente il carattere di endemica povertà.
Povertà come quella dei contadini (specie quelli del nord Europa) che si ingozzavano di pane fatto di farina di segale, spesso infestata da un fungo produttore di micidiali alcaloidi (e in quel caso si chiamava segale cornuta) che provocavano ogni sorta di malanni, come, dato il loro effetto di vasocostrittori, necrosi delle dita e delle unghie. O addirittura il fuoco di S. Antonio.
Ma il diabolico claviceps purpurea aveva anche pesanti effetti sul sistema nervoso: pieno di acido lisergico com’era. Ci immaginiamo i poveri contadini che lo buttavano giù con il pane, rapiti all’improvviso da allucinazioni psichedeliche, che di sicuro scambiavano per incantesimi mandati dal diavolo.
Si ritrovavano dannati al fuoco dell’inferno (e a quello di S. Antonio) invece di farsi un bel viaggio, come sarebbe diventato di moda qualche secolo dopo: Lucy in the Sky with Diamonds.
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