Maxxi
L’edificio è straordinariamente ben riuscito dentro e fuori: volumi immensi, linee curve, passerelle sospese, grandi vetrate, pavimenti inclinati. E’ lui l’opera d’arte. perché tutto quello che ci abbiamo visto dentro non ci è sembrato mai all’altezza del contenitore.
Eravamo lì martedì 23 per dare un’occhiata, appunto, a qualche contenuto, e non possiamo certo dire di aver cambiato idea sul rapporto fra opere in mostra e spazio espositivo. Pronti per andarcene, per fortuna il percorso chilometrico ha richiesto più del previsto.
Tempismo perfetto per la nostra uscita dal ventre del Maxxi. Con un tepore da primavera avanzata, ci ha accolti il giardino: una specie di campus universitario americano, sparso di studenti appollaiati sulle sedie del bar, di bambini non urlanti e di mamme non sgridanti: una rarità per casa nostra.
E in più, in quel preciso momento andava in scena uno spettacolo unico: il tramonto romano. E già questo… ma poi, alzando gli occhi su quella specie di pulpito a cannocchiale che sporge dalla facciata del museo, chiuso da una parete di vetro ormai in ombra, siamo rimasti fulminati dallo stupore di quelle case gialle di sole morente specchiate nei normalmente neutri cristalli.
Una visione di bellezza urbana che neanche le Dolomiti a Cortina.
Ci siamo chiesti quanto ci fosse di casuale in questa magnificenza.
Ma poi, l’ammirazione che abbiamo per Zaha Hadid ci ha convinti che la grande architetta aveva sicuramente previsto che a quell’ora di quel pomeriggio di gennaio il sole avrebbe incendiato precisamente con quella sfumatura d’oro riflesso l’altrimenti banale condominio umbertino di Via Masaccio.
La Usl al Palazzaccio
Il Palazzo di Giustizia di Roma (il Palazzaccio) è tutto un leone ruggente, uno scudo guerresco, un cornicione retorico, una colonna imperiale. La prosopopea di inizio secolo scorso fatta pietra dal criticatissimo (all’epoca e anche dopo) architetto Calderini.
Insomma, si tratta di una costruzione malata di gigantismo, nata cent’anni fa per l’amministrazione della giustizia, ma destinata a scivolare nel Tevere per il troppo peso del troppo travertino con il quale si era ricoperto tutto il ricopribile. Poi salvata miracolosamente, ma non definitivamente, con ripetute iniezioni di ricostituente.
Bello non è; imponente, di sicuro sì. Ma c’è un problema: nelle viscere di questo cigno marmoreo che rappresenterà nei secoli futuri (ammesso che i rappezzi continuamente richiesti riescano a mantenerlo in vita) le manie di grandezza della nazione nata da poco, si nasconde un brutto anatroccolo che mai avremmo immaginato potesse esistere, se il nostro medico di base non ci avesse mandato proprio lì per un controllo: un ambulatorio della Usl.
Apri la porta, entri nelle anguste stanzette del presidio sanitario ed è subito naufragio dell’architettonico trionfo. Ma questo potevamo immaginarlo. Il bello viene dopo. Fatta la visita, il
paziente, che per entrare nell’edificio ha dovuto lasciare un documento all’ingresso, è totalmente libero di andarsene in giro per i sacri luoghi della giustizia: gli immensi corridoi, le
passatoie rosse, i faraonici scaloni, su fino alle terrazze
che invece, sotto la protezione della quadriga bronzea di Ettore Ximenes, hanno una dimensione, e una trasandatezza, molto più domestica.
Non si incontra un’anima…
Dovremmo preoccuparci per la sicurezza delle istituzioni?
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