Cibi pesanti e digestivi scadenti
Un po’ fragile l’argomento dopo mezzo secolo; abbastanza scontati gli interventi a base di “io c’ero”; scomodissimi gli sgabelli; pessime l’amplificazione e l’acustica nel salone delle colonne
della GNAM, dove, il 15 febbraio, ha luogo la presentazione della mostra “Beat Generation: Ginsberg, Corso, Ferlinghetti. Viaggio in Italia”.
Per non sprecare quel che ci resta da vivere nel tentativo di decifrare l’uscita degli altoparlanti mal regolati, ce ne andiamo a zonzo per la Galleria, senza aver afferrato un gran che delle chiacchiere ufficiali.
E ci imbattiamo nella similcarcassa di un similcavallo appesa alla parete di una sala dedicata a Berlinde de Bruyckere e intitolata “We are all flesh”.
Siamo tutti carne. Nell’arte gli animali squartati o appesi ai ganci non sono certo una novità (Rembrandt, Guttuso, Hirst), come non lo è la voglia di scuotere il pubblico con crude
rappresentazioni di efferatezze umane e bestiali.
D’accordo allora: siamo a disposizione. Che ci si scuota, che ci si sbatta in faccia l’orrore, che ci si tiri fuori con violenza dalla bambagia borghese! Anche a questo serve l’arte.
Ma bisogna farlo davvero, senza presentare un ridicolo cartellino di scuse come questo, incollato al muro accanto all’opera.
La violenza e l’orrore sono sofferenza. Giusto. Brava Berlinde. L’imbarazzo (nostro) sta in quel paio di frasette buoniste, all’americana, che seguono: un digestivo politicamente corretto che neutralizza il piatto troppo forte, che ci rassicura e ci rimette a posto lo stomaco. “Nessun animale è stato ucciso…”
Ma c’era bisogno di ricordarcelo? E allora la provocazione, dove va a finire?
A meno che in queste frasette non ci sia del sarcasmo, ma ci sembra mooolto improbabile.
Otto marzo, a proposito di donne
Ci stiamo avvicinando a questa data, ultimamente un po’ appannata, e andiamo a ripescare una vecchia intervista che ci sembra particolarmente adatta alla circostanza (nel bene e, soprattutto, nel male).
Tieri - Lojodice erano non solo una ditta teatrale molto famosa all’epoca, ma anche un matrimonio di quelli che a tutti sembrano semplicemente granitici.
Il 21 gennaio 2017, a pagina 45 di Repubblica appare un articolo intitolato: “Caro Aroldo, forse un giorno ci perdoneremo”, in cui Giuliana Lojodice riferisce alcune spiacevolezze, camuffate o
magari anche sinceramente vissute come grande amore (questo non lo sapremo mai), della sua vita con Aroldo Tieri.
Dunque (citiamo rigorosamente le parole dell’intervistata), tanto per cominciare, quello che legava i due era “…un sentimento totalizzante che auguro a tutte le donne”, però… però lui era
“…calabrese, maschilista e femminaro: prima di me aveva avuto donne importanti”. “Era attaccato al suo passato e sapeva bene che i suoi racconti non facevano che acuire la mia gelosia”. “Non mi
ha mai detto: ti amo. Al massimo: Giuliana, provo una leggera inquietudine”. In più lui si ergeva a premuroso sostegno professionale per lei: “Quando mi facevano i complimenti in camerino, lui
con la manina esortava a contenere l’entusiasmo, perché se no, poi a casa…”
“I figli ne hanno risentito. Per questo non posso dire di essere stata davvero felice”. “Lui non amava i bambini e voleva un possesso totale su di me”. “A ottant’anni decise di smettere, e fu un dramma perché voleva che anche io lasciassi il teatro. E quando scelsi di continuare a lavorare scese fra noi una grande freddezza”. Negli ultimi anni Giuliana dovette ricoverarlo in clinica, e lui “…talvolta fingeva di non riconoscermi, oppure mi insultava”. E alla fine, saporita ciliegina sulla torta, nel suo testamento “…si è vendicato di me lasciando tutti i suoi averi a un nipote”.
Impossibile entrare nell’anima delle persone, lo sappiamo, e forse dovremmo fermarci qui.
Però, questo grande amore continuamente tirato in ballo sarà anche un sentimento totalizzante, ma di augurarlo a tutte le donne, a meno che non siano inguaribilmente masochiste, proprio non ci sembra il caso.
Più che un nobile sentimento, ci pare un piatto pesante e difficile da digerire.
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