Nei giorni scorsi, oltre al decesso della sinistra, abbiamo dovuto registrare anche quello di Gillo Dorfles, critico d’arte, pittore, scrittore e parecchio altro ancora. Essendo nato nel 1910, ne ha avuto di tempo per fare un bel po’ di cose.
Naturalmente, come era successo con la Levi Montalcini, quando muore un ultracentenario, e non uno di quei vecchietti rimbambiti che si vedono ogni tanto nei Tg regionali, ma un premio Nobel o un intellettuale famoso, ci rispunta questa speranza di immortalità che in fondo è il mito di tutti gli uomini.
Tanto forte è il nostro desiderio di arrivarci che da sempre e con grande successo, leggende, studi scientifici di dubbia serietà, ricerche geografiche viranti al new age e adesso anche la nostra grande mamma informatica, la rete, ci forniscono storie di popoli che hanno scoperto la formula della vita infinita.
Abbiamo i centenari del paesello sardo, quelli del villaggio del Caucaso e gli altri del pueblo sulle Ande. Ma i più in gamba di tutti sono gli Hunza. Gli Hunza vivono in un’inaccessibile vallata dell’Himalaya. Secondo i testi in rete, un’abbondante percentuale di questa brava gente campa come minimo un secolo. Alcuni arrivano ai centotrenta, e c’è chi ha raggiunto i centoquarantacinque anni. Per non parlare delle loro indomabili capacita di generare fino a tarda età.
La formula? Naturalmente andare sempre a piedi, mangiare poco e sano, frutta e verdura non trattata, niente carne, fumo o alcool. Niente stress. Fare per tutta la vita un lavoro per il quale non serve il cervello: zappare, seminare, raccogliere. Tranne questa trovata del cervello in pausa, tutto sacrosanto. Forse un tantino noioso, ma di sicuro sano.
Noi che il cervello cerchiamo di farlo andare, magari non sempre con successo, abbiamo un’altra teoria per spiegare tutti questi miracolati. Si sarà notato che, contrariamente a Dorfles che era di Trieste, perciò documentato, i vecchietti secolari abitano sempre in angoli sperduti del mondo, su vette irraggiungibili, o in fondo a vallate sconosciute.
Bene, la spiegazione del fenomeno è una sola, secondo noi: l’anagrafe. Nel senso che da quelle parti non ce n’è, e non ce n’è mai stata una.
Come si fa a certificare l’età di un anziano che dichiara di avere centoquarantacinque anni, quindi è nato, diciamo, nel 1873, in una sperduta valle del Karakorum? Facile inventarsele, le date, anche in buona fede. Il tempo, si sa, se è un concetto relativo per noi, figurarsi per quei signori che ne avranno di sicuro un’idea piuttosto fluida.
Però, siccome del mito tutti abbiamo bisogno, allora ce lo teniamo così: razionale o no.
Per ora. Poi, i futuri progressi della medicina, chissà…
Cinquanta sfumature di rosso: sulla pelle e nei quadri.
Il rosso è il primo colore riconosciuto come fondamentale dall’umanità. Ed è facile capire il perché: il sangue, il fuoco, la passione, la guerra. Poi, saranno anche passati secoli o millenni, ma noi continuiamo a confermargli il suo valore primario: sugli abiti dei re, dei papi e dei cardinali, sul red carpet delle attrici, sulla carrozzeria della Ferrari, sul logo della Coca Cola.
Appuntamento mensile, con questo titolo un po’ malizioso, presso DermArt (i nostri lettori ormai sanno che si tratta di incontri con dermatologi che si dilettano del confronto fra esperienze mediche e parallele osservazioni artistiche; e avranno anche capito che andandoli a trovare si impara sempre qualcosa).
Stavolta si è parlato del valore diagnostico, per un dermatologo, del colore rosso, che quando è normale, essendo la tinta dell’emoglobina, annuncia una pelle sana. Ma quando la pelle sana non è, con le sue variazioni permette di scoprire a colpo d’occhio dov’è il problema.
E a questo punto, sullo schermo della sala, accanto ai ritratti di Raffaello e alle plastiche bruciate di Burri ci sono stati serviti lembi di epidermide coperti di ogni genere di schifezze, dalla pityriasis rubra pilaris alla porpora senile.
Roba da non credere, un’esperienza davvero particolare: non solo per la straordinaria varietà cromatica in grado di denunciare i problemi all’occhio esperto del medico, o a quello del paziente un po’ curioso: dall’arancione, giù giù fino al bruno cupo o addirittura al bluastro, ma anche per quel subdolo impulso che ci spingeva, durante la chiacchierata, a grattarci dappertutto (con circospezione, intendiamoci) di fronte all’esibizione di eczemi, eritemi e psoriasi.
Alla fine dell’evento, mentre brindavamo con un bicchiere di vino (rosso, naturalmente) ci siamo ricordati di un appuntamento di circa un anno fa, sempre con DermArt, in cui si era già parlato di rosso; non della pelle, però, ma dei capelli.
E anche in quell’occasione avevamo acchiappato qualche notiziola curiosa: 1. Il gene dei capelli rossi è apparso circa ventimila anni fa, che è un battito di ciglia nella storia dell’evoluzione umana, e si prevede che verrà riassorbito, estinguendosi, entro pochi secoli. 2. I rossi non sono più del tre per cento dell’umanità. 3. Pare che più degli altri siano reattivi al dolore e quindi in sala operatoria abbiano bisogno di anestesie più forti. 4. Per ultimo, oltre al fatto di essere da sempre considerati diversi e quindi sottoposti a sberleffi da piccoli e a persecuzioni da grandi, compresi i roghi dell’Inquisizione, soprattutto le donne per sospetta stregoneria, si ritrovano, e questo naturalmente riguarda solo i maschi, a non essere neanche considerati come donatori, perché, a quanto pare, del seme dei rutiliani (definizione ufficiale degli individui con i capelli rossi) le banche del seme non ne vogliono neanche sentir parlare.
Il colmo.
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