Gaetano dei Cactus.
La settimana scorsa eravamo arrivati a Porta S. Sebastiano. Oggi proseguiamo sull’Appia Antica, ma solo pochi passi; infatti, quasi al bivio con l’Appia Pignatelli, davanti alla Cartiera Latina, ci fermiamo a uno sciccosissimo vivaio.
Ma è un falso allarme, perché lì non ci entriamo per niente; proprio a sinistra dello sciccosissimo ingresso dello sciccosissimo vivaio, segnalato da uno sgangherato cartello “Piante grasse da
collezione”, parte un viottolo altrettanto sgangherato che dopo qualche curva ci porta a un cancello. Ci infiliamo in una jungla di erbacce alte due metri, capannoni di bandone e serre coperte da
stracci, e ci viene incontro, scortato da un bastardino, Gaetano dei Cactus, piccolo, con la scoppola e uno stuzzicadenti che gli sta piantato in bocca come se proprio lì fosse germogliato dalle
radici dei denti di latte.
Vendere, sì, venderebbe anche; ma in realtà gl’interessa di più parlare delle sue succulente, dei danni dell’ultima gelata, di un cereo che gli è cresciuto tanto da costringerlo a fare un buco
nel tetto della serra, come se quel piccolo squarcio rovinasse la linea purissima della costruzione, sgangherata come il resto. Ci accompagna in giro per la sua proprietà, affascinante
guazzabuglio di materiali vari (orgoglio di raccoglitore), vegetazione di ogni genere (orgoglio di coltivatore), perfino una vasca con carpe ornamentali, la più grossa e vecchia delle quali sale
a galla per rubargli dalla mano dei granelli di cibo (orgoglio di allevatore).
Insomma, abbiamo di fronte un raro esemplare di vivaista sulla cui peculiarità non ci sono dubbi. Come non ce ne sono sul fatto che potrebbe avere la stessa veneranda età dei basoli dell’Appia. Merita una visita archeobotanica.
Tanto per rimanere in argomento, e in carreggiata, facciamo ancora qualche metro, sempre sull’Appia, ed eccoci al piazzale dell’Istituto Salesiano alle Catacombe di S. Callisto, al cospetto di una strabiliante esposizione di strabilianti cactacee che qualche appassionato custode (non siamo riusciti a sapere chi) coltiva in grandi vasi esposti in fila lungo la facciata. Vedere per credere (ingresso libero).
National Geographic.
Questa mirabile balena fatta di bottiglie di plastica usate è la mascotte del National Geographic Science Festival al Parco della Musica.
Come in tutti gli eventi ambientalisti, anche qui si respira una sottile, pungente aria di rimprovero per quanto poco noi umani facciamo per il nostro pianeta. Sensi di colpa aleggiano nell’aere e inviti a rimediare trasudano imperiosi da ogni parola e da ogni immagine. Tutto giusto, naturalmente, ma comunque inquietante.
Ebbene, forse perché siamo anche noi peccatori, ci arriva la punizione la sera di martedì 17, con la visione e l’ascolto di un concerto dal vivo di musica di Philip Glass a commento della proiezione di foto naturalistiche di Frans Lanting.
L’invito appariva appetitoso; si rivela indigesto. Sala Sinopoli. Prima del concerto, una lunga e a nostro parere superflua introduzione del fotografo, che espone il percorso delle immagini: la storia della creazione e dello sviluppo della vita sulla Terra fino all’uomo, usando un tono narrativo tra il biblico e il new age, in inglese; per fortuna notevolmente alleggerito da un’interprete brava e spiritosa che provvede agli accenti e all’enfasi, dove servono.
Poi comincia lo spettacolo: le foto, anche loro bibliche e new age, di cieli, mari e bestie, purtroppo proiettate su uno schermo di dimensioni infelici (2 metri per 8), spesso raddoppiate, moltiplicate e comunque, forse per via del formato, davvero poco emozionanti (sarà anche perché siamo viziati da quelle bellissime, macro o micro, che ormai si vedono dovunque su riviste e documentari naturalistici). Con accompagnamento musicale.
A questo proposito, prima vogliamo ringraziare gli esecutori del Parco della Musica Contemporanea Ensemble: ottimi, diretti dall’ottimissimo Tonino Battista. Malgrado loro, però, ci corre l’obbligo di parlare dell’ora (senza pause, che sarebbero servite, eccome) di musica di Glass: un affanno di note piuttosto vecchieggianti, e, ci è parso, scarse d’ispirazione; un poema sinfonico con parecchi richiami a “Fantasia”, o addirittura a “La Mer”, anche quest’ultimo segnato, come sappiamo, da momenti di stanchezza abissale (a proposito di mare…), con la differenza che Debussy, tutto sommato, ci pare un po’ meglio.
Insomma, alla fine ci siamo trovati in una condizione che non ci è piaciuta per niente: pieni di suoni ma vuoti di musica. Eppure non possiamo dire che Glass ci abbia fatto sempre questo effetto. Che sia successo qualcosa? A lui, o a noi?
In aggiunta alla serata, tanto per non farci mancare niente, ci siamo ripassati due mostre, anche loro ben centrate sulla umana responsabilità verso la nostra unica e pericolante casa nello spazio.
La prima, “Photo Ark”: meravigliose foto di animali in via di estinzione.
La seconda, “Sulle tracce dei ghiacciai”: meravigliose foto di ghiacciai in via di scioglimento.
Meno male che a inizio serata ci eravamo fatti il nostro solito, meraviglioso Negroni, altrimenti non si sa se saremmo riusciti ad arrivare alla fine.
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