C’era una volta l’Acquedotto Claudio, il più bello, che insieme a tanti altri attraversava il territorio a sud est di Roma su archi di tufo altissimi e maestosi.
Suggestivi i quadri della paesaggistica romantica del sette-ottocento, e poi le fotografie seppia del primo novecento con le immagini della campagna romana, e sullo sfondo quelle serie di archi barbuti di felci, estesi fino all’orizzonte. Cosa ci può essere di più profondamente intrecciato con la natura di questi ruderi, di più spirituale ed evocativo della grandezza imperiale? Invece di rispondere a questa domanda vorremmo azzardare una ricostruzione.
Ecco cosa probabilmente succedeva venti secoli fa di fronte a queste romantiche rovine (viste oggi), in realtà fastidiosi manufatti industriali (visti allora). Li sentiamo protestare, i
signorotti latifondisti, contro quelle barriere moderne ingombranti e volgari che gli riempivano il panorama e gli facevano calare il valore degli iugeri; e i loro fattori imprecare contro quegli
archi che gli spaventavano i maiali e facevano seccare il latte alle capre, che impedivano la vista dei colli vicini e con la loro altezza bloccavano il ponentino rinfrescante del pomeriggio
favorendo le pestilenze. Naturalmente senza un pensiero sul progetto che dava alla città le terme, le fontane, l’igiene e il benessere di tutti.
Bene, nel dugento, sull’incrocio fra il nostro Acquedotto Claudio e l’altro, il Marcio, poi diventato Felice, ridotti entrambi a ruderi dai barbari e dal tempo, fu costruita una bella torre, che sta ancora in piedi, a testimoniare della solidità dei manufatti antichi: Tor Fiscale.
Restaurata e ripulita ci è stata restituita con una gran festa campestre il primo giugno. Banda musicale, merenda di bambini ed emozione a rivedere nei muri le tracce dei grandi archi imperiali, ben chiari nella struttura.
Ma non solo. I restauratori hanno deciso (e hanno fatto bene) di lasciare in vista anche altre tracce, molto più recenti e molto più miserabili: quelle dell’occupazione dei profughi che nell’immediato dopoguerra arrivavano dalle campagne e dalle cittadine laziali distrutte dai bombardamenti, e per avvicinarsi alla metropoli dove speravano in una nuova vita, occupavano qualunque spazio che potesse funzionare da casa provvisoria, da baracca in cui sopravvivere: una manna i tanti archi degli acquedotti, che in quella zona erano numerosi e pronti all’uso.
Ecco perché alla base di Tor Fiscale rimangono, impudiche, le pareti ancora imbiancate di calce delle baracche che le si appoggiavano contro, o sopravvive questo armadio a muro, rozzo e improvvisato, che si apre nel pilastro di un arco dell’Acquedotto Felice, intonacato e ridotto a promiscua abitazione in cui certamente si ammassava una famiglia numerosa e miserabile di quegli anni.
Tre secoli fa le guide del grand tour mettevano in guardia i viaggiatori che arrivavano dal nord: attenzione, i ruderi sono pieni di serpenti. Magari innocui biscioni, ma c’erano ed erano tanti.
Non certo del genere che siamo andati ad ammirare qualche giorno dopo al New Curiosity Shop di Bulgari. A Via Condotti, accanto al negozio storico c’è questo nuovo spazio dedicato per l’occasione a una notevole mostra di quadri e sculture imperniate sulla tradizionale icona della Maison: il serpente.
Opere di Fornasetti, Vasconcelos, Niki de Saint Phalle, Starr, contemporanee pitture cinesi insieme a copertine di moda del passato e oggettistica quotidiana: tutto serpentiforme.
E poi, ovvio, i gioielli veri a forma di colubro: braccialetti, cinturini, orologi, collari, anelli, uno più inquieto e scintillante dell’altro.
Naturalmente, anche se il contrasto fra il prezioso lavoro di microscopica chirurgia dell’orafo per unire oro, argento e pietre preziose e farne un gioiello, e il rozzo sforzo da parte di incolti muratori del medioevo per recuperare tufi e mattoni spezzati di un’epoca lontana per costruirci una torre militare sembra incolmabile, in realtà si tratta della stessa azione: fare qualcosa di bello (e anche, ma non necessariamente, di utile).
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