Utili perché mettono insieme l’antico e il moderno. Non è detto che funzioni sempre, ma almeno c’è una possibilità in più di trovarsi qualcosa di bello sotto gli occhi.
Dall’acquedotto della settimana scorsa alle terme di questa; eccoci a Caracalla (dove “I romani giocavano a palla, dopo il bagno verso le tre, tira tira a me, che la tiro a te, e poi gridavan: Olé!”, canzoncina di Clara Jaione, anni ’50, a dimostrazione che i testi cretini c’erano allora come ci sono adesso). Clara era anche famosa per altri due capolavori dello stesso genere: “Arrivano i nostri (a cavallo di un caval)” e “I pompieri di Viggiù”.
Qui alle Terme di Caracalla ci sono due eventi in corso. Il primo: la preparazione dei tre grandi concerti di Morricone in programma nei prossimi giorni. Gli operai formicolano con i loro caschetti gialli a tirar su il palcoscenico e i sedili dell’enorme platea (già tutta sold out).
E poi c’è la mostra retrospettiva delle sculture di Mauro Staccioli.
Caldo e uniforme è il colore dei mattoni, che prendono così bene la luce del sole. In realtà noi vediamo quello che gli antichi neanche immaginavano, perché all’epoca tutto era rivestito di marmo, bianco o colorato, di intonaco affrescato, intarsiato di mosaici; e quello che rimane oggi è come lo scheletro delle costruzioni moderne, solo che il materiale è molto più bello, più nobile, e il suo disintegrarsi lo rende più affascinante (vedi i mattoni di Venezia che più muffa e salnitro hanno addosso, più odorano di storia) e non è inesorabilmente misero come il cemento moderno dei pilastri sgranocchiati dal tempo.
Che dire delle opere di Staccioli? Che potrebbero anche non esserci per quanto poco ci cambiano la vista dei giganteschi scheletri murari. Ma bisogna anche dire che, dato che ci sono, ci stanno bene. La loro essenzialità (si tratta di basilari forme geometriche tridimensionali: cubi, parallelepipedi, cerchi), la loro materia, il metallo, tanto diverso dal mattone, e la loro dimensione, perché sono grandissimi, dà loro la forza per reggere il confronto con l’ambiente dove sono capitati.
Quindi: benvenuta l’iniziativa. Oltre a farci conoscere Muro Staccioli, ci ha riportati, in un pomeriggio con il tramonto giusto, a rivedere questa testimonianza di antica grandezza che rimane lì ferma da soli venti secoli e sembra intenzionata a durarne altrettanti (sempre che la grettezza degli umani non riprovi, come già fatto in passato, a tirarne fuori ancora qualcosa di riutilizzabile).
…e a questo punto, eccoci all’argomento che siamo riusciti a evitare finora, ma che ormai ci sta addosso; e non si sfugge.
Ma, se ci piacciono tanto le grandi rovine romane, anche se ridotte al solo scheletro di mattoni, o a qualche colossale colonna, perché invece non riusciamo a farci piacere il Vittoriano (altrimenti detto Altare della Patria, Tomba del Milite Ignoto, Macchina da Scrivere, Torta Nuziale, Vespasiano e così via oltraggiando)?
Che è un edificio maestoso, ingombrante, marmoreo e retorico, come sicuramente erano tutti i templi e i palazzi della Roma Imperiale. Alcuni dicono: è troppo bianco; le pietre antiche erano dipinte. Possibile, ma non ci crediamo del tutto. Se fosse stato così, perché fare le colonne con un tipo di marmo e i capitelli con un altro? Certo, qualche spennellata di colore qua e là ci sarà stata, ma, dato che gli antichi non erano stupidi, perché avrebbero dovuto coprire con la vernice dei marmi che sono bellissimi per come sono: taglio, venature, sfumature, colori.
Insomma, secondo noi il Vittoriano è la fedele rappresentazione di un equivalente SPQR di due millenni fa.
E allora ci frulla per la testa un altro pensiero: non sarà il tempo che fa la differenza?
Quello che devasta le nostre facce umane con la sua semina di rughe, borse, nei, bargigli e orride verruche, fa così tanto bene a un pezzo di travertino, a una scheggia di marmo, a un frammento di bronzo da dargli con il suo rosichìo implacabile una nobiltà che magari prima non avevano?
E siccome non abbiamo la risposta, vi salutiamo. A lunedì prossimo.
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