Il turista con un minimo di sensibilità estetica che ha appena fatto un giro intorno alle mirabili fontane di Piazza Navona è probabilmente sull’orlo della famosa sindrome di Stendhal e avrebbe
bisogno di un’oretta per riprendersi, magari seduto al bar Tre Scalini davanti a un bel tartufo gelato.
Se invece decide di rischiare il tutto per tutto e proseguire in direzione del Panteon, dovrà per forza prendere la Corsia Agonale, che dalla piazza porta davanti all’ingresso di Palazzo Madama.
Il quale, malgrado il nome apparentemente frivolo (in origine era destinato non a Madama Italia, che ancora non esisteva, ma a Margherita d’Austria, vedova di Alessandro de’ Medici, detta appunto “La Madama”) oggi è sede del Senato della Repubblica: come dire, il luogo più rappresentativo della nazione.
Per la sicurezza dei senatori un’auto dei carabinieri è sempre parcheggiata lì di fronte. In più esiste una barriera di prezioso ferro satinato montata lungo il marciapiede e, per ulteriore
garanzia, proprio allo sbocco della Corsia Agonale di fronte al palazzo, c’è un cancello dello stesso materiale pregiato, con SPQR impresso sui piccoli stemmi all’incrocio delle transenne.
In caso di sommosse popolari, questo bel manufatto può essere chiuso dalle forze dell’ordine in modo da bloccare eventuali cortei di facinorosi diretti, appunto, al Senato.
Ma in un normale pomeriggio d’estate, con tutti i romani al mare e pochi turisti a spasso, l’artistico sbarramento metallico ovviamente non serve. Allora, tenendo bene in mente il decoro dovuto al luogo istituzionale e l’immagine da offrire agli stranieri in visita, come si regolano gli addetti alla sicurezza, (qualche fantasioso factotum del Senato, immaginiamo; o magari un poliziotto di servizio) per tenere aperto il cancello?
Ecco: legando alla bell’e meglio le nobili bronzee ante con un pezzo di cavetto elettrico. Neanche in un pollaio.
Un perfetto monumento all’attuale (o forse eterna?) cialtroneria della nostra città.
…e una jungla in cortile
Tranquilli, non ci siamo spostati in Amazzonia. Stiamo sempre nel Lazio, sulla Via Tiberina, a una trentina di chilometri da Roma, fra le rovine della Colonia Julia Felix Lucus Feroniae. Un sito archeologico modesto, certo nulla in confronto al Foro Romano, ma benedetto da un’arcaica solitudine, anche se è a un passo dall’Autostrada del Sole, e da un bucolico profumo di mentuccia.
Quello che manca all’esterno lo troviamo all’interno del piccolo ma perfetto museo che accoglie il visitatore (letteralmente “il” e non “i”: eravamo gli unici esseri umani oltre la gentile custode, sia fuori, sui prati seminati di pochi marmi, sia dentro le sale). Ingresso libero, confortevole aria condizionata, un ragionato itinerario di visita, vetrine bene illuminate e illuminanti didascalie, e soprattutto pezzi di scultura strepitosi, fra cui questo magnifico bassorilievo recuperato dalla sontuosa Tomba del Gladiatore recentemente scoperta lì vicino e sottratta ai tombaroli.
E allora, se tutto è così perfetto, qual è il nesso con il cavetto del Senato? C’è, non dubitate, perché basta, dall’interno impeccabile delle sale (e senza responsabilità, ci teniamo a dirlo,
del personale) affacciarsi al cortile, ed eccoci sprofondati nella foresta vergine, come nei libri di avventura per ragazzi.
Anche sforzando l’occhio, s’intravvedono appena, celati dalla vegetazione esuberante, un bel po’ di rocchi di colonna, capitelli, cornicioni: frammenti di un certo interesse; ma sono irraggiungibili.
Esattamente quello che succede a chiunque, in questo sfortunato incivile momento storico, si avventuri in un parco di Roma, o addirittura osi salire su una normalissima aiuola spartitraffico; va a finire che si smarrisce inghiottito dall’erba che arriva al petto.
Basterebbe un umile giardiniere con un umile decespugliatore e tutto sarebbe, in un attimo, di nuovo umilmente civile.
Quello che manca non è l’uomo o l’attrezzo. Né, nel caso del Senato, una decorosa catenella assortita al resto.
E’ il pensiero che manca.
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