Rinoceronte.
Venerdì 12, tarda mattina. Una normale foto turistica: l’arco di Giano con dietro l’arco degli Argentari e la chiesa del Velabro. Un cipresso e un muraglione. Nessuna traccia di edifici moderni. E lì a sinistra, incongruo, un animalaccio che bruca fra i sanpietrini. Di che si tratta?
E’ un Fendi original. Rappresenta Roma: non quella di oggi, quella imperiale, che vedeva nel rhinoceros il simbolo di una forza suprema. Ed è anche il nome del progetto di salvataggio e restauro di un blocco di edifici popolari, molto sgarrupati, anzi addirittura abbandonati, rimasti al livello medievale, di parecchi metri superiore a quello romano, e risparmiati dagli scavi mussoliniani di apertura della Via del Mare.
Fendi li ha recuperati con un restauro (non ci è sembrato sensazionale) che lascia intatte ma cristallizzate le tracce del degrado delle murature esterne, mentre all’interno modernizza tutto con acciaio e vetro. Sensazionale invece è la vista dal terrazzo (il miracolo che in questa nostra città salva sempre le situazioni) che arriva dappertutto: Fori, Cupoloni, Templi, Colli e perfino i Castelli.
Meritano una passeggiata sia la vista che il rinoceronte.
Swing.
Dall’Enciclopedia della Musica Garzanti: “Swing: elemento fondamentale del jazz che definisce il gioco degli accenti, degli anticipi e dei ritardi e che non può essere assolutamente fissato sulla carta”.
Per la serata di apertura della stagione di Santa Cecilia, con la grande orchestra, il coro in camicie a quadretti, i percussionisti aggiunti, i cantanti e le ragazze vestite con abitini americani anni cinquanta, siamo stati testimoni di una impeccabile esecuzione di West Side Story di Bernstein diretta impeccabilmente da Antonio Pappano.
Impeccabile, come possono leggerla un’orchestra sinfonica e un coro classico guidati da un direttore impeccabile. E’ comunque fuori dubbio che, per nostro maggior piacere, in questo musical tutto è bellissimo: i temi, la trama (Giulietta e Romeo), i testi, l’orchestrazione e le parti solistiche.
Mancava quella sciocchezza in più, secondo noi indispensabile per questo tipo di musica; la quale sciocchezza, appunto perché non può essere assolutamente scritta (come dice la Garzantina) altrettanto assolutamente non può essere letta da un gruppone di centoventi orchestrali e coristi classici, per quanto ben diretti: lo swing.
Niente di male, intendiamoci: intanto perché la maggior parte degli spettatori (abbondanza di bastoni, teste bianche e sedie a rotelle fra il pubblico) non se n’è neanche accorta, e poi perché se il Cav. Serpente vuole proprio lo swing, invece che a Santa Cecilia dovrebbe andare in un locale che si chiama Alexanderplatz, fucina del jazz romano, e che, incidentalmente, ha appena riaperto. Ne riparleremo.
Ecstasy.
Ma non del tipo illecito che qualcuno, malizioso, potrebbe immaginare.
Chiude questa interessante settimana “Teresa, l’ultima estasi”, un monologo di e con Rosa Di Brigida, visto domenica 14 per la regia di Francesco D’Ascenzo nella piccola, intima, antica chiesa di Santa Maria in Monterone.
Teresa d’Avila è una donna che, in un periodo in cui quelle come lei non contavano niente, dice: “Nel coraggio non siate donne ma uomini forti… anzi, da far paura agli stessi uomini”.
Di Brigida, sola in scena con musiche e suoni audaci, con costumi e scenografie di sua pura invenzione, muore e rinasce in un’estasi umana e ultraterrena, ancor più allucinata di quanto potrebbe essere se fosse travolta dalla sostanza psicotropa del titolo.
E noi del pubblico siamo usciti da questa partecipata esperienza stupefatti anche noi, anche noi estasiati, ma per niente storditi; anzi, più ricchi.
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