Come reagireste se Gucci vi invitasse per un bicchiere di Ca’ del Bosco, Valentino per una coppa di Marchesi Antinori, Dolce e Gabbana per un calice di Donnafugata, e così via discorrendo, anzi
trincando per un totale di 58 boutique del centro storico, tutto intorno a Piazza di Spagna?
Noi abbiamo reagito nell’unico modo saggio: abbiamo accettato l’invito, ci siamo messi in alta tenuta e via per una faccenda chiamata “La Vendemmia di Roma 2018”, con partenza alle 19.30 di giovedì 18 ottobre e arrivo dovunque la resistenza degli invitati lo consentisse.
Il progetto è semplicissimo e geniale: tutte le boutique del gran lusso italiano e internazionale sono aperte e in ognuna viene servito, insieme a squisiti bocconcini, uno (o più, a seconda della faccia tosta del richiedente) bicchieri di vino di ottime annate e di marche superiori.
Tutto di qualità tanto eccellente che, pur avendo, diciamo così, accettato (per cortesia, intendiamoci, mica per tendenza etilica) quasi ogni proposta, l’indomani neanche un filo di mal di testa.
Non c’è che dire: cosa c’è di meglio che ammirare, o anche sbeffeggiare in caso di eccesso, un collier da tre milioni di euro o una borsetta da trentamila, con in mano un bel calice gelato e senza il senso di inadeguatezza inevitabile quando uno di noi comuni mortali decide di entrare in una supergioielleria ben sapendo che non comprerà niente.
Tutti gentili, efficienti, simpatici: una serata davvero splendida, aiutata anche da un clima primaverile e, perché no, dalla magia della scalinata di Piazza di Spagna.
Se non che…
Se non che, in ogni salone, davanti a ogni vetrina, ci è venuto di dire, e abbiamo sentito uscire dalla bocca di molti dei nostri compagni di mondanità questa frase, che è una vera e propria condanna per la nostra stupida, sudicia e suicida città: “Che bello, sembra di stare a Milano!”
“Preludio dei siciliani al di sopra di ogni sospetto”.
Questo è l’arguto titolo (evidente il riferimento alle colonne sonore di “Il clan dei siciliani” e “Un cittadino al di sopra di ogni sospetto”) di un brano che l’organista Angelo Bruzzese ha
regalato a Ennio Morricone, di cui, come ormai sanno tutti, nel 2018 è scattato il novantesimo compleanno.
A festeggiarlo nella Sala Accademica di S. Cecilia, sabato 20, in una serata dal titolo: “Morricone e l’organo, un rapporto quasi sacrale” organizzata da Giorgio Carnini, organista anche lui, e
dei migliori, c’era una quantità impressionante di collaboratori storici: Bruno Battisti D’Amario, Carlo Romano, Gilda Buttà, Luca Pincini e altri presenti ormai solo nel ricordo: Franco Tamponi,
Dino Asciolla, con i quali (quelli vivi) il maestro ha cominciato a tirare fuori aneddoti da sala d’incisione, magari vecchi di mezzo secolo, ma raccontati con grinta e memoria infallibili.
E in più, noi che eravamo seduti proprio dietro di lui abbiamo controllato: non ha una ruga (vedere foto).
Finalmente, fra una battuta e l’altra, è venuto fuori ciò che sappiamo essere, magari non un cruccio, ma certo un pensiero sempre presente nella sua opera: il sormontabile abisso, forse solo un fosso, fra la musica di servizio (quella per il cinema, per intenderci) e la musica assoluta che per Morricone è quella da concerto.
Parlando di alcuni suoi film (La battaglia di Algeri, per esempio) il maestro ha svelato che nei temi musicali che sottolineano le scene lui spesso nasconde riferimenti colti a Bach, a Frescobaldi: “Tanto il regista manco se ne accorge, e io, con queste citazioni dalla grande musica classica riscatto me stesso e gli altri compositori per il cinema da quello che ci può essere di commerciale, anzi, di minore (proprio questa la parola usata) in quella musica”.
Un punto di vista interessante.
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