Quattro anni fa scrivevamo:
“La situazione clinica è grave. Mica la nostra personale, anche se l’anagrafe procede implacabile nel suo cammino. Parliamo di quella di Roma.
Per nostra fortuna abitiamo una città da secoli ricca di storia e arte ma non priva di problemi. Quello di oggi è l’acquitrino nel quale è immerso come un Titanic colpito e affondato ma ancora coronato di orgogliosi cipressi e oleandri, uno dei più insigni monumenti di Roma, il mausoleo di Augusto.
Il misfatto idrico si è verificato il 19 agosto 2014, quando tutto doveva essere pronto, dopo anni di abbandono e di imbarazzante incuria, per il bimillennario della morte dell’Imperatore.
Proprio quel giorno da qualche parte si ruppe un tubo e la zona si allagò. La situazione si cronicizzò subito, come quasi sempre accade nella nostra inefficiente plurisecolare metropoli, e così è rimasta. Impaludata (la situazione e il monumento)”.
Dissolvenza e passaggio di tempo. Siamo nel 2018 e a girare da quelle parti, specialmente di sera, il panorama è notevolmente cambiato.
Un’elegantissima, elaborata recinzione avvolge tutta la zona: cipressi illuminati con sapienza, scritte che richiamano i tempi imperiali, foto e ologrammi che cambiano orientamento al ritmo di voci e musiche evocative, a nostro parere non sempre azzeccate (accanto al solito Respighi, che comunque lo metti, a Roma va bene, ci scappa ogni tanto un Rachmaninoff che di antico romano ha pochino).
Insomma, adesso la faccenda è molto migliorata, e ci spinge a immaginare che qualcuno stia lavorando davvero per sistemare le cose.
Come dicevamo prima, speriamo che la perfida anagrafe sempre in agguato non ci tolga di mezzo prima di vedere il lavoro finito.
Viriamo su a un altro argomento. Qualche giorno fa, passando al Circo Massimo, ci è venuta la curiosità di sapere che fine avesse fatto l’obelisco di Axum, preda di guerra nostrana dopo
l’aggressione all’Etiopia negli anni ’30, rimasto dritto lì davanti alla FAO per una settantina di anni e poi scomparso.
Ci siamo informati e abbiamo scoperto che è stato restituito! Beh, è uno dei pochissimi casi in cui il predatore ha dovuto mollare l’osso. Ma è ovvio dedurre che a questo bel gesto l’Italia è stata costretta perché aveva perso la guerra.
Altrimenti…
Il Partenone: 26 settembre 1687. Le truppe veneziane stanno assediando Atene, che in quel momento è turca. Parte una cannonata veneta (una canonada, ciò) che cade sul tetto del Partenone. Lo sfonda, e con un gran botto salta in aria il monumento più bello e famoso del mondo occidentale. Il fatto è che i turchi ci avevano piazzato un deposito di polvere da sparo.
Duecent’anni dopo, il console inglese ad Atene, Lord Elgin si rende conto di cosa c’è sotto i calcinacci, rimasti ammucchiati in una specie di discarica storica, e un po’ compra, un po’ ruba; fatto sta che da allora una parte di quelle straordinarie sculture è andata a cronicizzarsi al sicuro al British Museum, e lì resterà per sempre, speriamo, malgrado le richieste di restituzione.
A pensarci bene è un po’ sempre la stessa storia: Augusto preleva un obelisco in Egitto, lo porta a Roma e lì il pietrone si cronicizza nel Circo; un qualche papa scava un Laocoonte e se lo piazza a palazzo, dove il capolavoro mette radici; Napoleone trova a Brera un quadro di suo gradimento e se lo porta a Parigi e da quella parete del Louvre nessuno lo stacca più.
Noi siamo fieramente favorevoli a che le opere d’arte continuino la loro vita anche lontane da casa, purché protette e visibili a tutti. Ci pare sciocco, per esempio, che due bronzi talmente strepitosi da essere diventati, appena scoperti, delle star archeologiche, li abbiano trasferiti in un museo fuori mano, a Reggio Calabria, solo perché sono spuntati dal mare a Riace, due passi da lì.
A Roma, dopo il restauro, c’erano chilometri di fila per vederli; a Reggio, e ci siamo passati un paio di volte: il museo che li ospita, carino, e pure antisismico, lo abbiamo trovato quasi sempre vuoto. Cosa è meglio?
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