La tisana


Domenica 20, un tedioso pomeriggio di pioggia; umidità al massimo, energia al minimo.

Ci trasciniamo (sono pochi passi) fino a Santa Maria dell’Anima, una delle chiese meglio illuminate di Roma, senz’altro la più pulita e con i marmi, molti e bellissimi, scintillanti di cera. Il nostro amico Flavio Colusso, che ne è il kapellmeister, conferma l’esistenza di una squadretta di suore impegnate nella pulizia e lucidatura di tutto l’apparato. Molto efficienti.

Ah, stiamo dimenticando di dire che si tratta della chiesa ufficiale della nazione tedesca a Roma, che le suorine sono tedesche, e tedesco è il rettore, un monsignore torreggiante che ricorda Federico Barbarossa. Questo spiegherebbe i risultati, crediamo.

C’è un concerto del Puijon Kamarikuoro, un gruppo vocale finlandese con un programma di classici noti e meno noti. Sono bravissimi, perfettamente omogeneizzati, tranquillizzanti: proprio la tisana che ci vuole in un pomeriggio schifoso come questo.

E infatti, lo spettatore si rilassa sempre più, si dispone alla contemplazione e, seguendo un vago ma irresistibile richiamo mistico-musicale rivolto al supremo, alza gli occhi al cielo.

Ma c’è un problema: il cielo, anzi il soffitto della chiesa è sbilenco. Che la tisana sia stata manipolata? Come lo erano quei deliziosi infusi a base di erba che sorbivamo negli anni ’70, per sentirci trasportare su soffici nubi, dalle quali, dopo, era maledettamente difficile scendere?

Ripresa la padronanza della visione, la realtà planimetrica non cambia. Urge un’indagine. Finito il concerto, accolto da sobri applausi di stampo scandinavo, eccoci a casa a verificare sui libri. E’ tutto vero: la pianta della chiesa è come uno di quegli scatoloni di cartone che si adoperano nei traslochi. All’inizio hanno tutti gli angoli perfettamente retti, ma dopo due o tre viaggi, cominciano ad allungarsi da una parte e accorciarsi dall’altra, diventando più losanghe che quadrati.

Lo stesso è successo alla chiesa, non si sa perché: probabilmente per adeguarsi al perimetro della proprietà che qualche facoltoso mercante teutonico doveva aver donata alla comunità.

Comunque, visto che la baracca sta in piedi da cinque secoli, sulla sua solidità, rettangolo o losanga che sia, non c’è proprio niente da dire. La foto non è manipolata e l’anomalia diventa ancora più evidente osservando la disposizione dei marmi sul pavimento. Andare a vedere per credere.

 


Il Fogolâr Furlan.
Palazzo Ferrajoli è una di quelle modeste dimore rinascimentali costruite nel centro storico di Roma, di solito con vista su qualche insignificante monumentino del passato imperiale dell’Urbe, come si può constatare dalla foto qui accanto scattata appunto dal salotto di casa.

Qui, giovedì 17, ospite della Regione Friuli, il Fogolâr Furlan, il sodalizio che riunisce i friulani di Roma, ha presentato un interessante libro “Novecento Friulano a Roma”, che è una rassegna, quanto mai accurata e dettagliata fin all’atto di battesimo o alla lista (con annesso menù) dei partecipanti alle cene sociali, di tutti i compaesani di qualche peso scesi in città nell’ultimo secolo.

Il Cav. Serpente, originario di quelle parti, ma ormai lontano da troppi anni, si è trovato continuamente sballottato fra emozioni di riconoscimento di luoghi e tradizioni e attacchi di smarrimento quando qualcuno dei relatori (tutti con nomi tipo Zanìn, Meneghìn, Cottarìn) decideva di sparare un proverbio o raccontare una storia in furlàn, che, come è noto, più che un dialetto è una lingua, e anche quasi impossibile da capire.

Sono state due ore e mezzo piacevoli, anche se spesso sul filo del rasoio. Purtroppo con un finale asciutto.

Nel senso che, dopo tutto quel parlare del Friuli, dei Friulani, delle loro storie e delle loro squisitezze pensavamo di meritare almeno un calice di Ribolla Gialla.

Invece: ciao ciao, e tutti a casa sotto l’acqua di un bel temporale (forse la punizione per le nostre malriposte aspettative alcoliche).

La prossima volta avanzeremo una mozione in favore di una maggiore attenzione verso l’enogastronomia locale.

 

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