Il puntatore

 Sono anni, anzi decenni che frequentiamo il mondo della musica, leggera e classica, e mai ci era capitato di incontrare questa figura professionale: il puntatore. Ce l’ha fatta conoscere con il suo garbato ma serio tono da conferenziere Luca Della Libera il 20 febbraio al Conservatorio di S. Cecilia durante la presentazione di un suo libro su Alessandro Scarlatti e la musica sacra a Roma.

Siamo a cavallo fra il sei e il settecento e in città fiorisce una quantità di cappelle musicali che oggi neanche ce le sogniamo. Cantare in uno dei cori è ambizione di molti e soprattutto è un’attività che garantisce un salario sicuro in quei tempi difficili, anche perché, non essendo ammesse le donne, c’è posto pure per i ragazzi (e forse per qualche castrato in incognito).

La cappella musicale era composta dai cantori, dai cappellani corali, dall’organista, da un maestro di grammatica che custodiva anche i libri e dal Maestro di Cappella.

Accanto a tutti questi, nominato a turno fra i cantori c’era un personaggio oscuro ma di grande potere: appunto il puntatore. Il suo ruolo era quello di segnalare tutti coloro che trasgredivano le regole e “darne nota al camerlengo, il quale, avanti di pagare il mese”, detraeva l’ammontare della multa dal salario.

E le trasgressioni potevano essere tantissime in un regolamento così rigido e minuzioso. Rileggiamone alcuni articoli nel linguaggio pomposo e un po’ ridicolo del tempo, sempre tenendo presente che “se alcuno per domandar gratia a un prencipe mondano studia di compor se stesso & le sue parole con habito onesto, gesti decenti, parlar moderato, distintamente e con attentione, con tanta maggior diligenza in luogo sacro ciò convien di fare in pregare l’onnipotente Iddio”. Perciò:

“Non cominciar il versetto sin che l’altro non sia finito, et quelli che contrafaranno saranno multati in baiocchi cinque per ciascuna volta”.

“Nessuno dovrà tenere le labbra serrate, ma tutti nei salmi, hinni et cantici con allegrezza spirituale mandar voci di laude al signor Iddio, sotto pena di esser multati come absenti”.

“Quando si dice il Gloria Patri ogn’uno si cavi la beretta et inchini divotamente il capo”.

“Nessuno di essi cantori o cappellani debba partirsi di Choro (mentre durano li divini uffitij) senza espressa licenza, et al puntatore che altrimente concederà tal licenza in giulij due per ciascuna volta”.

“Non vadino né stiano senza cotta et veste longa et habito clericale, etiam che fosse il giorno over la settimana sua vacante, sotto pena di giuli due per ciascuna volta; et stiano con quella gravità che si richiede, non confabulando o parlando insieme, sotto pena d’un giulio per ciascuna volta; et finiti gli uffitij divini ritornino a spogliarsi senza tumulto ne i luoghi loro ordinarij, sotto pena di baiocchi cinque per ciascuna volta”.

Neanche al collegio convitto di Gian Burrasca.

E c’è anche un premio per la delazione:

 

“Per la lor fatica i detti puntatori habbino de i punti, oltre la rata loro, a ragione del cinque per cento”.


Visto che siamo in argomento, e, più o meno, nello stesso periodo, ci piacerebbe avere la spiegazione (che probabilmente non arriverà mai) di un ritardo inspiegabile.

Andiamo a un concerto per sestetto di liuti. Autori noti (Gabrieli, Kapsperger), bei brani, benissimo eseguiti, però sembrano il lavoro di preparazione di qualcosa di molto più grande che verrà, ma non è ancora maturo. Vai a guardare la data delle composizioni: fine ‘500, inizio ‘600, e ti prende un colpo.

Il fatto è inspiegabile, il ritardo esagerato, l’assenza ingiustificata.

Ma come mai la musica è così indietro, in un’epoca in cui tutte le altre arti sono più che mature? Giotto trecento anni prima già faceva la sua famosa “O”; poi sono arrivati giganti come Leonardo, Raffaello, Tiziano. Architettura e scultura: la cupola di Brunelleschi, Palazzo Farnese, San Pietro, la Pietà. Letteratura e poesia con Dante, Petrarca, Tasso.

Colombo era andato e tornato dall’America. E la musica? Strumenti afoni o imprecisi e stonati, comunque primitivi; melodie scarne, accompagnamenti precari. Le voci, sì, ma solo quelle. Altro che colonnati e basiliche!

Il Beethoven dell’architettura e della pittura e il Michelangelo della musica, che dovrebbero essere contemporanei, sono separati da tre secoli. Inspiegabile.

Certo, poi le cose si sono un po’ aggiustate, grazie alla tecnologia che ha riequilibrato il gap con la possibilità, prima inesistente, di fissare la musica, sia scritta che eseguita, come da sempre si fissa la scultura, la scrittura, l’architettura.

Però non si spiega lo stesso, o no?

Forse è inutile insistere.


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