E va bene, eccoci qua: la vacanza è finita e siccome siamo saggi abbiamo evitato le spiagge troppo salate, le montagne troppo ossigenate, le isole troppo isolate e le (altre) città d’arte troppo
affollate. A questo punto cosa ci avanzava? Roma in fondo non è tanto male: c’è gente che si fa dodici ore di volo per venirla a vedere.
Noi qui stavamo e qui siamo rimasti.
Girando e curiosando lontani dal centro e stando bene attenti a evitare quei sinistri ectoplasmi di ultrasessantenni che, sul volto i sintomi dell’infarto imminente, si stroncano con le loro
pratiche quotidiane di jogging sotto l’implacabile sole del meriggio, e a non fermarci troppo a lungo su qualche panchina che potrebbe risultare pericolosa, ci siamo saziati di sensazioni,
emozioni, impressioni e, per non avere il dubbio di avere scarpinato invano, vi esponiamo alcune osservazioni che ci sembrano abbastanza saporite da condividerle nella ripresa dei nostri incontri
settimanali.
Cominciamo con gli acquedotti, e in particolare il Claudio, che è di sicuro il più maestoso e bello di tutti.
Eccolo qui, in alto, quasi com’era appena finito: una perfetta opera d’arte ingegneristica messa insieme senza neanche un cucchiaino di calce, con massicci conci di tufo tagliati tanto bene che ancora adesso sembrano saldati e non ci passa una formica, figuriamoci uno scalpello.
Eppure è più che probabile che venti secoli fa queste geniali, romantiche rovine fossero considerate solo ingombranti manufatti industriali.
Sempre al loro posto, intatti malgrado le sicure proteste dei proprietari dei fondi su cui serpeggiavano abbassandone il valore, passa un secolo, ne passa un altro, gli archi, per quanto ben costruiti, cominciano a vacillare ed ecco apparire i rinforzi in mattoni e malta che, d’accordo, ne rovinano l’estetica ma almeno li tengono in piedi
Certo, con Roma decaduta e gli acquedotti interrotti, quei macigni tagliati così bene, si erano trasformati in un ghiotto bottino per tutti. E allora, complice la Camera Apostolica che ne era
diventata proprietaria e aveva preso la brutta abitudine di vendersi tre archi di qua, altri due di là al migliore offerente, ecco che inizia lo smantellamento: i rinforzi di mattoni,
inutilizzabili, rimangono ma i bei massi di tufo, specialmente quelli squadrati, cominciano a scomparire con destinazioni varie, alcune meno nobili, come magari i muri di una porcilaia,
altre più utili ma molto più distruttive, per esempio il nuovo Acquedotto Felice di Papa Sisto V, gran costruttore nonché padrone del vapore, che lavorava quasi sempre a spese del passato.
E così, un sassolino alla volta, interi tratti di quella maestosa opera sono stati sgranocchiati lasciando in giro una grande confusione di pilastri e archi, e portandosi via, una carretta alla
volta (ci immaginiamo i poveri somari e gli ancor più poveri braccianti a faticare per demolire quello che altrettanto poveri schiavi romani avevano faticato a costruire), i tufi stupendi,
irrealizzabili con la tecnologia del tempo ma gratis et amore dei semplicemente depredando gli antichi manufatti.
E finalmente, hoplà, arriviamo alla testimonianza finale della grande rapina: questo rudere ancora in piedi a Porta Furba.
Che è un arco isolato dell’Acquedotto Claudio, dove la struttura originale è del tutto scomparso, ma ha lasciato la sua impronta in negativo: i muri di emergenza in mattoni costruiti a sostegno dei pilastri, che mostrano ancora il disegno dei famosi tufi così ben tagliati e la curva, sempre in mattoni, su cui poggiava l’arco a sostegno del condotto dell’acqua.
Un lavoro di giganti sbriciolato da insolenti implacabili formiche. Che ci sia un riferimento all’epoca in cui viviamo?
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