Questa settimana abbiamo affrontato una spinosa questione: la nostra grave indifferenza verso la fotografia (intesa come opera d’arte, e quindi come oggetto di esibizione).
Primo esame: “Metropoli”, grandiosa mostra fotografica di Gabriele Basilico al Palazzo delle Esposizioni. Immagini, come da titolo, di grandi città del mondo. Curiosità, e niente di più abbiamo provato nella sezione dedicata a Beirut 1971–1991, guerra civile e ricostruzione, B/N e colore.
Quanto sarà costata, ci siamo chiesti, la costruzione attraverso i secoli della città, la sua ricostruzione di oggi, ma soprattutto la sua stupida distruzione nel ventennio dei combattimenti. E ci siamo andati a cercare in rete la risposta. Dai pochi euro per un proiettile di kalashnikov (ma ne partono interi caricatori da 30 in pochi secondi), ai 130 $ per ogni colpo di cannoncino da elicottero, alle migliaia per ogni bomba di mortaio pesante, alle decine o centinaia di migliaia per un missile. Follia di un intero popolo. Indignazione nostra per la contabilità di morte di persone e cose: forte. Emozione artistica per le foto: fiacca.
Secondo esame: mostra fotografica, più ridotta, di Stefano Cigada al Museo di Roma in Trastevere: “Frammenti”. Bel titolo, dove i frammenti sono quelli di marmi romani fotografati in B/N e con abili giochi di ombre, in vari musei d’Italia.
Anche qui, per le foto, emozioni scarsissime, malgrado l’argomento marmi ci interessi, ma curiosità sì, soprattutto per una di queste, scattata al Museo Archeologico di Napoli, che rappresenta un nudo femminile, restaurato dopo evidenti mutilazioni da fanatismo cristiano dei primi tempi, quando da cancellare erano tutti gli elementi di celebrazione della bellezza del nudo umano, gloriosa per l’estetica pagana, peccaminosa per quella cristiana.
Se qualcuno dei nostri lettori è come noi offeso da questa dolorosa inversione ideologica, gli consigliamo di andarsi a leggere un libro che, benché contestato, ci è parso istruttivo in proposito: “Nel nome della croce – La distruzione cristiana del mondo classico” di Catherine Nixey. Soffrirà, ma saprà.
Abbiamo riflettuto su questa nostra indifferenza alla fotografia.
Forse potremmo darne la colpa a tutte le immagini perfettamente inquadrate, splendidamente colorate, sapientemente nitide che vediamo ogni giorno, e gratis, dappertutto: stampa, pubblicità, cinema, TV, confezioni alimentari. Potrebbe trattarsi, appunto, dei postumi di un’indigestione o più probabilmente di un’inclinazione personale. Vediamo di non colpevolizzarci troppo. D’altra parte, fra le tante cose che non ci piacciono c’è il rock, l’Opera Lirica (tranne qualcosina), e lo champagne con le ostriche. Non vorrete mica smettere di leggerci per questo.
Il giorno dopo ci siamo molto divertiti a incontrare gli strepitosi manichini dei due artisti cinesi Sun Yuan e Peng Yu alla presentazione del loro peculiare evento al Grand Hotel St Regis, da
loro stessi commentato come una “ricerca sugli aspetti comuni della condizione umana”.
La quale condizione, per i due cinesi, dev’essere o troppo pesante, a giudicare dalle teste di pietra che incombono sul collo dei loro personaggi similumani oppure troppo leggera come cinguetta la signora librata fra gli alberi e i sontuosi lampadari liberty della lobby.
Bisognava vederle, le facce dei clienti normali (quelli senza i massi sul collo), seduti a bere un caffè lì in mezzo.
Invece improntate a una flemma british erano quelle del personale, per cui evidentemente non stava succedendo niente di straordinario. “Grand Hotel: ne abbiamo viste di tutti i colori, noi”.
Onore al merito dei dipendenti e anche, bisogna riconoscerlo, della direzione dell’albergo che ha ospitato senza battere ciglio questa installazione, della quale, per usare una citazione di qualche tempo fa, si poteva tranquillamente dichiarare che con l’arredamento tradizionalissimo del salone “che ci azzeccava?”
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