Il contenuto è la mostra di Gio Ponti: disegni, plastici, modellini e foto di edifici. E cartelli attaccati al muro con sue esternazioni. Fra l’altro constata che “l’umanità avanza dal pesante al
leggero, dal grosso al sottile”. Vero, aggiungiamo noi, grazie ai nuovi materiali che rendono realizzabile qualsiasi progetto anche mai affrontato prima.
Accompagnati, come sembra obbligatorio per molte mostre contemporanee, da un sottofondo di suoni similperistaltici: profondi borborigmi, rombi al limite dell’udibile, sgocciolii di fluidi e sibili di gas, ci dilettiamo ancora una volta nell’esplorazione di questo magnifico contenitore che è il Maxxi.
Di cui vogliamo mostrare (a destra, sopra e sotto) il magico riflesso dei circostanti condomini fine ottocento che abbiamo colto rimandato dal finestrone. E nello stesso tempo la assoluta banalità degli stessi condomini visti dall’interno dello stesso finestrone. Potenza dei materiali. L’ora è la stessa, le case anche, ma che differenza di emozione! E tutto per un vetro.
E questo puro capolavoro, in un finto bianco e nero di cemento e metallo è l’interno del museo visto dal ballatoio dell’ultimo piano. Geometrica per-fezione. Non serve neanche il colore.
Il contenitore capolavoro: un mostro che divora tutto quello che ha dentro.
Come sapevano benissimo i Romani che del marmo avevano fatto una fissazione, le colonne sono mirabili se tutte di un pezzo, di marmo massiccio naturalmente, e pregiato se possibile. Già quelle a
rocchi denunciano la incapacità del committente di reperire il meglio sul mercato. Quelle ricoperte, magari addirittura di scagliola, sono da mezze calzette. E quelle in muratura intonacata e
dipinta con le finte venature, decisamente roba da pezzenti.
Però se il marmo è troppo costoso o difficile da trovare, allora bisogna accontentarsi. E’ ciò che, a fine ottocento, dev’essere successo con il Palazzo delle Esposizioni a Via Nazionale, un altro contenitore che, malgrado la povertà dei materiali e la pomposità d’epoca, è di significato assoluto.
E’ di quella grandiosità impostata sullo scialo degli spazi e degli elementi architettonici: scaloni infiniti, soffitti altissimi, colonne numerose a intonaco dipinto, insomma, uno stile molto trombone, ma proprio per questo esemplare di quell’epoca.
E alla fine, riesce anche lui a divorare il contenuto che in questo caso è una mostra sterminata di Jim Dine, di cui, dopo essercela girata ben bene, tutto quello che possiamo dire, guardando un suo quadro che rappresenta una scarpa con sotto scritto “Shoe”, è: “Ehm, ci sembra… forse… anzi è proprio così… tautologico”.
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