Eccoci qua, cappellaccio in testa, frusta di cuoio intrecciato e via al galoppo per la Prenestina, fuori Porta Maggiore, periferia degradata di Roma, alla ricerca del misterioso Lago Bullicante.
Acqua sorgiva, vegetazione rigogliosa: Salix alba, Phragmites australis, Populus alba; ricca fauna stanziale: Germano reale, Martin pescatore, insieme con specie di passaggio come il Falco pellegrino e la Beccaccia.
E’ un relitto della recentissima era industriale, anni ’50–’60. Lì c’era uno stabilimento della SNIA che produceva seta artificiale; poi è finita la richiesta, è sfumato il lavoro, è defunta
anche la SNIA.
Ma non è svanito il sottobosco dei furbetti malandrini, fra cui un costruttore che all’inizio dei ’90 rileva l’area, progetta di farci un grandissimo centro commerciale e mentre scava la buca per
il garage sotterraneo, involontariamente intercetta la vena del Fosso della Maranella.
Disastro: inondazione e blocco del cantiere. Il furbetto prova a non rimetterci i quattrini captando l’acqua con le idrovore e pompandola nel grande collettore fognario. Esplosione e allagamento della Via Prenestina. E fine della furbata.
Ora è un bellissimo laghetto selvatico, organizzato e curato da un gruppo di volontari della zona. L’acqua non solo è pulita, ma anche minerale e continua a zampillare dal sottosuolo mantenendo il bacino ben pieno e facendo la guardia allo scheletro, ormai nobilitato dai muschi, del mancato supermercato. Il palazzinaro si starà ancora mordendo le unghie, la gente del quartiere invece è molto contenta.
A questo punto, per evitare di essere presi per mitomani, vi confessiamo che in testa non indossavamo il cappellaccio ma il casco obbligatorio e la frusta non ce l’avevamo perché su un motorino (che non è un cavallo) a che serve una frusta? Però l’avventura all’amatriciana l’abbiamo vissuta davvero e vi invitiamo a ripeterla per conto vostro perché merita.
Via di Portonaccio, angolo con Via Prenestina. Dal cancello si vede il cartello e si entra senza problemi.
Cambio ambientazione: lasciamo la recentissima era industriale e spostiamoci a quella, molto più remota, della fede.
Ai piedi del Gianicolo c’è il chiostro di Sant’Onofrio, un luogo che trasuda serenità e pace da ogni colonnina. Fra l’altro è dove Torquato Tasso si ritirò a consumare i suoi ultimi giorni prima che la pazzia se lo portasse via.
Con quello che all’epoca succedeva crediamo che fosse più che comprensibile desiderare di rinchiudersi. Lasciando fuori un mondo dove si moriva di fame, di freddo o di coltello; o anche di peste o di un’altra delle terribili malattie che circolavano.
Sui muri del chiostro è narrata la vita di Onofrio con didascalie sgrammaticate e ingenui affreschi attribuiti al Pomarancio, che a noi ricordano molto le vignette del Corriere dei Piccoli.
Eccola, la storia. Nasce figlio di un re persiano. Quando è ancora bambino un demonio lo dichiara frutto di tradimento coniugale. Il padre, credulone e crudele, come niente fosse lo sottopone alla prova del fuoco dalla quale il pupo esce fresco come una rosa.
Più tardi, insofferente del mondo, si fa anacoreta e va a vivere nel deserto, dove per tre anni una capra bianca lo allatta.
A un certo punto di questa vita, di sicuro non molto igienica, si ricopre tutto di barba, capelli e peli vari, e da quel momento va avanti per altri trent’anni mangiando il pane che un angelo gli porta ogni giorno e i datteri che gli fornisce una palma delle vicinanze.
Attirato dalla sua fama di santità, il monaco egiziano Pafnuzio lo va a trovare e si trattiene a convivere con lui, immaginiamo in qualche puzzolente spelonca.
Finalmente Onofrio muore e, mentre Pafnuzio si dispera perché non sa come seppellirlo, dal deserto spuntano due leoni i quali a unghiate scavano la fossa dove finalmente, con immaginabile sollievo di Pafnuzio stesso, il santo anacoreta troverà il suo riposo.
Oggi a credere a simili leggende si passa da ingenui o da scemi. A meno di ammettere che la realtà esterna, come dicevamo, fosse allora così spaventosa da costringere tutti a rifugiarsi nella favola.
Due cose ci sembra obbligatorio regalarvi prima di chiudere: un’icona bizantina che ci mostra come i contemporanei vedevano Onofrio, mutandoni d’edera e barba fino ai piedi; e una filastrocca siciliana con cui i fedeli lo invocavano perché, grazie ai suoi poteri, era accreditato come infallibile aiuto a ritrovare le cose perdute.
“Santu Nofriu pilusu-pilusu / Tuttu amabili e amurusu
Pi li vostri santi pili / Facitimi truvari chiddu ca pirdivi”.
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