N° 452 - Il Negroni, Conforto Universale


C’è un elisir che ci accompagna da sempre nei nostri vagabondaggi e che, negli ultimi tempi, si è rivelato un formidabile alleato anche nella resistenza contro il virus. Proprio per propagandare il valore terapeutico di questa mistura alcolica siamo andati indietro di un bel po’ di anni nel nostro archivio e abbiamo trovato queste annotazioni che vi ripubblichiamo fidando nel già citato potere euforizzante del cocktail, e anche, ci si perdoni la malignità, nel fatto che la gran parte dei nostri lettori sono, diciamo così, avanti con gli anni (e/o gagliardi consumatori di Negroni), e quindi è possibile che non ricordino di avere già letto quanto segue.

                

12 aprile 2014. Sufi Ensemble al Parco della Musica.

Pejman Tadayon, un simpatico musicista persiano, furbissimo conduttore della serata, ci ha fatto ascoltare la musica di casa sua, ci ha fatto cantare insieme a lui “la ilaha illa allah”, ci ha fatto guardare un gruppo di volenterose ma non proprio provette ballerine che facevano le dervisce ruotanti, e avrebbe voluto farci applaudire anche il coro Naghshbandi se non che quest’ultimo ha dato buca al concerto.

Ecco una circostanza in cui il Negroni è indispensabile per il suo garantito effetto rasserenante. Dopo (o anche durante) un bicchiere, va bene tutto. Non che la faccenda non fosse gradevole, ma certo ben poco di più. Pejman, con il suo pittoresco accento ha declamato per noi alcuni dei testi cantati, che, forse per colpa della traduzione in italiano, risultavano banalissimamente pieni di cuori, amori e occhi assassini: un Sanremo etnico, insomma, mentre i ghirigori decorativi proiettati per fare da sfondo all’esecuzione ricordavano molto, troppo, i centrini della nonna.

Non mettiamo in discussione l’importanza della preghiera che si fa musica e della musica che si fa preghiera, o la capacità di raggiungere stati estatici durante queste pratiche; tanto meno il potere ipnotico di un insieme di suoni che gira intorno a un pedale fisso (in questo caso tristemente prodotto da una tastierina) senza limiti di durata né promesse di sviluppo. Il fatto è che noi poveri spettatori normali, anche se ce la mettiamo tutta per essere politically and artistically correct, una serata come questa, davvero, se non ci fosse stato il Negroni…

 

23 aprile 2015. “In my life” un concerto informale al Parco della Musica

Un evento di Musica Contemporanea è normalmente considerato un’occasione molto seriosa (e spesso molto noiosa). Noi invece, stavolta, ci siamo fatti un sacco di risate.

In primo luogo perché siamo arrivati alla biglietteria già dotati del propedeutico Negroni che al bar dell’Auditorium preparano così bene. Poi perché l’atmosfera che ci ha accolto era davvero informale: l’amico Enrico Marocchini, compositore in forza a Nuova Consonanza, anche senza Negroni era al meglio delle sue caratteristiche di sublime cazzeggiatore. Fausto Sebastiani, uno degli autori in programma, inappuntabile e garbato maestro di cerimonie, è stato capace, durante la performance del suo bel pezzo per chitarra ed elettronica, di buttarsi sul pavimento per manovrare le manopole del cassone tecnologico.

Il decano Marcello Panni presentando il suo brano che chiudeva la manifestazione, scritto, come usava negli anni Sessanta in forma di gioco colorato ad arbitraria disposizione degli esecutori (omaggio alla Settimana Enigmistica) ne ha dette tante, e divertenti, fra cui una che facciamo nostra per la sua indiscutibile, sorprendente verità. “La musica aleatoria è l’unica veramente fedele al pensiero del suo compositore. Perché, se un mezzoforte, scritto da Beethoven in partitura, sarà inevitabilmente interpretato dall’esecutore in un modo forse giusto per lui stesso ma non necessariamente corrispondente all’intenzione dell’autore, l’esecuzione, appunto aleatoria, proprio perché ogni volta diversa, coincide esattamente con quanto indicato dal compositore con l’uso di questo termine“.

A noi è sembrato ineccepibile. Forse il Negroni?

 

 


Stesso giorno. Per concludere, dopo tutti questi aperitivi, un bel risotto al barrito. Abbiamo assaggiato questo insolito piatto all’Associazione dei Veneti a Roma, verso il tramonto.

Eravamo lì per la presentazione di un libro e, assai più stimolante, una degustazione di cucina veronese.

L’argomento im­pegnativo e la temperatura tropicale in sala (finestre ermeticamente chiuse: si sa, pubblico in età) a un certo punto ci hanno spinto a rifugiarci nella adiacente ter­razza con affaccio sulla jungla (vedi foto).

Dal folto della quale hanno cominciato a salire terrificanti  barriti, ruggiti paurosi e altri inquietanti richiami non identificabili, ma di sicuro esotici e primordiali.

Finita la conferenza (noi sempre in esterno e protervamente assenti agli applausi), è apparso il rinfresco promesso: pentoloni fumanti di risotto. Mentre i selvaggi ululati aumentavano, uno dei cuochi ci ha rassicurati: “Nol se preocupi, siòr: xe l’ora del pasto e i animali del zoo i ga fame come noialtri, e i fa un gran bacàn”.

Niente Salgari: siamo a Roma, a Via Al­drovandi: in strada ci passa il tram e, di fronte, la foresta pluviale altro non è che la rigogliosa vegetazione di Villa Borghese.

E le bestie feroci ci sono, sì, ma nelle gabbie del sottostante Giardino Zoologico.

 

 

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