Riaprono i musei. Dai molti e confusi decreti: prenotazione obbligatoria, cioè, veramente, non proprio obbligatoria, diciamo preferibile. Riapertura lunedì, però il lunedì è il giorno di chiusura
settimanale, quindi riaprono il martedì, ma non tutti. Sono rimandate a giugno le aree archeologiche, proprio quelle dove non servirebbe la mascherina e soprattutto sarebbero improbabili gli
assembramenti (sull’Appia Antica o alla Villa dei Quintili! Quando mai si è vista grande partecipazione di popolo in queste lochescion?)
Noi comunque ci portiamo avanti (ancora da casa) ritornando a sguazzare nei nostri argomenti preferiti.
“Carthago, il mito immortale” al Colosseo. Praticamente il giorno prima della chiusura totale ci siamo trovati a godere (e siamo certi che non succederà più) dell’Anfiteatro a nostra totale disposizione. E’ che l’allarme si era già diffuso, i turisti non arrivavano più e gli indigeni stavano a casa terrorizzati. Noi eroi della cultura (o incoscienti della medicina) eravamo lì a chiederci, come di solito facciamo, perché una cosa è così e un’altra è cosà. Sotto investigazione, stavolta, gli attrezzi che avevano permesso a Roma di vincere la battaglia delle Egadi contro Cartagine nel 241 a. C.
La battaglia era stata cruciale e aveva concluso la prima guerra punica avviando Roma e diventare padrona del Mediterraneo.
Francamente lo stupore ci ha bloccati davanti all’arma finale, recuperata dal mare ed esposta in una vetrina: il rostro. Che era una punta di bronzo, montata sulla prua, sotto il pelo dell’acqua, con la quale si speronava la nave nemica sfondandone la chiglia e facendola affondare. Niente da dire sul livello tecnologico della trovata. E’ sulla sua dimensione che ci siamo fatti spiazzare. Una robetta alta poco più di un metro e lunga altrettante, che evidentemente si staccava dalla sua trave e rimaneva infilzata nel legno avversario, affondando con lui. Una battaglia epica che aveva cambiato la storia combattuta con questi apriscatole da mezzo metro!
Ovvio che la punta fosse proporzionata alla nave su cui era montata. Dovevano essere piccole le imbarcazioni a remi, massimo una ventina di metri, con le quali Roma aveva conquistato il mondo. In pratica il doppio di una gondola. A parte la ovvia differenza di destinazione e di eleganza, rimane il fatto che mentre le gondole sono più grandi (undici metri) di come le immaginiamo, le biremi romane, invece, erano evidentemente molto più piccole.
A proposito di gondole e di misure, basta trovarsi a Venezia in un giorno qualsiasi, con il Bacino di San Marco violentato dal passaggio di una delle cosiddette Grandi Navi per rendersi conto di quanto siano cambiate le proporzioni oggi.
Le gondole sono rimaste le stesse, Venezia anche, le navi romane sono un ricordo del passato ma quelle di oggi sono diventate mostri immensi, paurosi, pesantissimi, pericolosissimi e francamente neanche tanto belli.
Tanto per non farci sfuggire niente, siamo anche andati a controllare i lavori di sistemazione della pavimentazione dell’Area Sacra di Torre Argentina, su cui avevamo fatto una piccola indagine
preventiva a inizio anno, rimanendo anche qui un po’ basiti.
Sembra che il tutto si sia ridotto a ricollocare su una probabilmente costosissima piattaforma di metallo poggiata su pilastrini regolabili, le lastre di travertino che giacevano da anni sul prato, senza però seguire né un disegno razionale, né un filo artistico. E’ una vera e propria romanella (che dalle nostre parti significa una ripassata superficiale per nascondere le magagne senza risolvere i problemi): i travertini sembrano accostati a caso, e a un certo punto devono anche essere finiti, così ci hanno lasciato un bel buco in mezzo.
Malignità, da parte nostra, incompetenza o mancanza di fantasia? Aspettiamo giudizi.
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