Fin dall’inizio dei tempi e per i nove decimi della sua storia l’uomo è vissuto da analfabeta. Tutto quello che c’era da sapere se lo raccontavano a voce. Poi, ma molto poi, sono arrivate le immagini. E praticamente cinque minuti fa è arrivata la scrittura.
Comunque l’immagine rimane, soprattutto adesso che la tecnologia l’ha resa mobile, riproducibile e onnipresente, ancora il mezzo più potente per comunicare.
Solo che, proprio perché è così facile da usare e alla portata di tutti, ci può indurre a svelare più di quello che si vorrebbe, e talvolta a lasciare una traccia che poi è impossibile cancellare.
A Roma c’è un nodo di archeologia industriale, bellica, monumentale che chiunque al mondo ci invidierebbe e che perfino i romani invidierebbero a se stessi se solo riuscissero a individuarlo. E’ unico: punto d’arrivo e smistamento di tutti i principali acquedotti della città, con relativi impressionanti incroci di archi e pilastri; la più monumentale doppia porta nelle Mura Aureliane, che sovrasta le vie Prenestina e Casilina; una misteriosa basilica neopitagorica nascosta nella massicciata dei binari ferroviari, i resti delle Terme Eleniane, e altri sassi, vari ma non secondari.
Da valorizzare, no? E invece ecco tre immagini proprio giuste per raccontare la triste, cialtronesca realtà della nostra impresentabile città.
Archi romani nella prateria? No, si tratta della ben curata aiuola che circonda il monumento.
L’antico e l’arcaico assieme? Sì, è’ il capolinea del decrepito trenino Roma – Giardinetti.
Arte concettuale? In un certo senso. E’ la cuccia di uno dei tanti sbandati che la notte bivaccano nei giardini lasciandoli poi in questo stato.
Siamo a Porta Maggiore. Non c’è altro da aggiungere.
Dal degrado al lusso sfrenato “Guardate tutti quanto è ricca la nostra famiglia!” - grida l’immagine di questo tavolo superbarocco della Galleria Colonna. “Non solo mi hanno caricato di tutti i possibili simboli del potere e della nobiltà, ma per dimostrare che loro non hanno nessun bisogno di un umile pezzo di mobilio come me, con tutti questi ornamenti mi hanno reso praticamente inutilizzabile”.
E che dire dell’ingenua efferatezza di questa immagine, ripresa dal raccapricciante martirologio dipinto dal Pomarancio sulle pareti della chiesa di S. Stefano Rotondo?
Una quantità di pannelli dove le presunte (o anche reali, certo gli antichi romani ne avevano di fantasia sull’argomento) torture subite dai martiri cristiani sono rappresentate per l’edificazione dei fedeli contemporanei.
Da scettici del terzo millennio ci viene da ridere ma soprattutto da chiederci come facessero i succitati fedeli a non trasecolare di fronte a queste rappresentazioni orribili e ingenue, nelle quali da una parte c’è il dettaglio cruento di tenaglia e coltellaccio del crudele carnefice che sta per infliggere, o lo ha già fatto, la mutilazione al martire, ma dall’altra c’è la faccia beata del poveruomo che sta per perdere la lingua, o quella della signora accanto a lui che sorride mentre un rivolo di sangue le cola dalla bocca dalla quale evidentemente la lingua è già stata strappata…
E poi, per chiudere, eccoci all’immagine della morte.
Due modi di vederla, ma due modi che più opposti non si potrebbe proprio.
San Giovanni in Laterano: il defunto, un prelato o comunque un uomo di studio, rispettabile e rispettato, si è addormentato nel sonno eterno accompagnato dalla fede e di certo da una coscienza tranquilla.
E infatti eccolo lì, bello rilassato nella sua poltrona e ce lo possiamo immaginare circondato, come si usa dire, anche nel supremo momento, dall’affetto dei suoi cari. Insomma, qui la morte non fa paura.
E invece in questa tomba dalla chiesa di Gesù e Maria, che orrore! Che dolore queste contorsioni dello scheletro in preda a qualche insopportabile angoscia!
E’ impossibile immaginare quale condanna si nasconda dietro questa rappresentazione mostruosa. Chi avrà commissionato la scultura, forse il defunto stesso pentito di qualcosa? Forse qualcuno che lo giudicava troppo severamente?
Non lo sapremo mai. Certo qui di pietà neanche una briciola.
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