Anche questa settimana il Cavalier Serpente continua a sognare, immerso nei suoi ricordi.
13 novembre 2010, “Che tempo che fa”, intervista a Riccardo Muti. Fazio, ingenuo col trucco, lo stuzzica, e il Maestro, una parola dopo l’altra, si abbandona all’inconsapevole (ne siamo certi) adorazione del proprio personaggio. Spara battute blandamente audaci, con finto scandalo del diavoletto Fazio e risate complici del pubblico, di quella complicità deferente e obbligata dalla fama dell’interlocutore: il Maestro non è un comico, è un musicista, perciò, anche se le battute sono scarse, noi ridiamo lo stesso di gusto, anzi, ancora di più proprio per questo.
Naturalmente parla anche di musica. Intendiamoci, si tratta di qualcuno a cui l’umanità non può che essere grata di esistere. Eppure, intento a civettare sul suo ruolo nel mondo, appare così innocente, nel senso che da parte sua tutto è spontaneo, senza nessuna programmata malizia, che fa, appunto, tenerezza.
Ancora più teneramente ci ha colpito una sua intervista pubblicata con grande risalto recentissimamente, in cui rimpiange il tempo della sua giovinezza (quando naturalmente tutto, compresi gli studi, era più serio), si lamenta di come vanno le cose oggi (quando naturalmente tutto è solo superficialità e apparenza) e manifesta il desiderio di scomparire dal mondo. Esternazione che ha provocato il veemente sdegno di alcuni frequentatori di FB che ci hanno visto soprattutto una botta di snobismo, accompagnata da un’ulteriore ricerca di gratificazione e non semplicemente la stanchezza di un ottantenne triturato dal successo.
Un altro narciso tenerone è il Mughini, con le sue giacche di moquette, i suoi occhiali vistosi, le smorfie e il birignao da cicisbeo del tardo settecento, così sempre affannosamente in cerca di attenzione. Lui sì ci sembra più apparenza e meno sostanza del maestro Muti: diremmo decisamente che il dono che ci fa di sé non ha proprio lo stesso peso.
Naturalmente c’è anche il padre nobile, l’Albertazzi da palcoscenico, che parla da lungi, come se fosse già sulla nuvola dei grandi, e ai mortali regala perle della propria saggezza.
E il narciso letterario? I trafiletti iperproteici di Arbasino. Venti righe in cui si affacciano i nomi di tutte le ugole liriche che cantano, di tutti i direttori d’orchestra che contano, dei salotti che lo divertono, degli spettacoli che lo colpiscono, dei camerini che si socchiudono per lui, in una bulimia di informazioni, tutte coltissime, esattissime, documentatissime.
Ma il re dei re è Eugenio Scalfari. Eravamo presenti al suo novantesimo compleanno lunedì 7 aprile 2014 al Teatro Argentina. Tre quarti d’ora di baci e abbracci da Veltroni, da Sorrentino, da Paola Fracci, da Benigni, insomma, da chi conta; poi inizia la cerimonia.
Brani della prosa del festeggiato sono letti da Silvio Orlando, il cui microfono, tanto per non smentire la reputazione nazionale, gracchia e sputazza un bel po’ prima di stabilizzarsi (siamo al Teatro Argentina, il primo teatro di Roma, ma siamo comunque in Italia; mica vogliamo che funzioni tutto, no?) Amici e collaboratori, dopo aver offerto pretestuose garanzie di antiretorica, leggono solenni, perdendo del tutto la spontaneità della festa in famiglia, aneddoti gustosi, ricordi inobliabili, omaggi deferenti.
Non ci aspettavamo la torta con dentro la ballerina, è chiaro, ma tempi un po’ più teatrali sì, visto dove siamo. Per fortuna appena il protagonista prende la parola possiamo nuovamente apprezzarne lo spirito, la proprietà di linguaggio, la chiarezza di idee e, di nuovo, la civetteria con cui riferisce le telefonate di auguri del Primo Ministro, del Papa, del Presidente della Repubblica che avrebbero tanto voluto passare a salutarlo, ma lui ha preferito di no per evitare troppe emozioni.
Instancabile, come sono spesso i vegliardi quando si raccontano ai nipoti, pilota con timone saldo la nave dei festeggiamenti.
Ahinoi, a un certo punto della rotta il magnifico vascello di capitan Scalfari incontra un pericolosissimo scoglio e finisce col naufragare come se al comando ci fosse uno Schettino qualsiasi. Succede che il distaccato, cinico giornalista a un certo punto annuncia che leggerà alcune sue poesie, perché, sì, in tarda età ha scoperto di essere anche poeta.
Di colpo, al posto del pilastro di saggezza e ironia che credevamo di conoscere, abbiamo visto un nonno un po’ andato che a un certo punto ha smarrito fra i fogli che teneva con mano tremante l’ultima composizione. E quando l’ha trovata ha voluto leggerla. Peccato.
Trilla la sveglia e il sogno finisce. E fuori del sogno, certo, qualcosa è cambiato: alcuni dei personaggi citati se ne sono andati, ma la maggior parte è ancora qui, anche se in età avanzatissima, e con loro è rimasto, più saldo che mai l’eterno simbolo d’immaturità: il Narciso. Quello che non cambia è il Cavaliere, sveglio, vivo (per ora) e sempre pronto a mordere con i suoi denti avvelenati. Un po’ narciso anche lui
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