Eccola, riproposta pari pari la cronaca di una visita traumatica del Cav. Serpente di dieci anni fa.
Agosto 2011. Dopo secoli di abbandono è stato finalmente aperto al pubblico il santuario di Ercole Vincitore a Tivoli. Sole a picco, pietre e rovi; così a noi piace visitare i ruderi. E qui il nostro cuore ha ricominciato a sanguinare come ogni volta che ci perdiamo in mezzo ai vecchi marmi. Per il dolore, il dolore che ci strizza lo stomaco quando vediamo lo strazio che il tempo e gli uomini hanno fatto dell’arte romana. In fondo solo pochi secoli dalla fine dell’impero sono stati sufficienti per distruggere, coprire, dimenticare quella immensa massa di opere e di materiali accumulati nei mille anni di vita di Roma.
Certo, il fascino del frammento è irresistibile. Basta un troncone di colonna per immaginare (e l’immaginazione, si sa, non ha limiti) una reggia sontuosa. Mentre una costruzione integra e imponente come l’Altare della Patria a Piazza Venezia, che è la perfetta imitazione di un edificio imperiale Romano, ci lascia indifferenti, per non dire un po’ offesi dalla sua boria.
E’ perché qui l’immaginazione non può lavorare: tutto lo spazio è occupato dalla realtà.
Da un testo di Rodolfo Lanciani, massimo archeologo di fine ottocento: “Me ne stavo seduto all’estremità meridionale del Palatino e guardavo il palazzo di Settimio Severo, una costruzione lunga 150 metri, Larga 118 e alta 50. Completamente scomparso. E il Circo Massimo? Centocinquantamila spettatori. Immaginiamo tutta questa gente seduta sui gradini. Calcolando per ogni persona uno spazio medio di 50 centimetri, otteniamo un totale di 75 chilometri di marmo, di cui non ci è pervenuto nemmeno un frammento.”
E ancora: “Ogni volta che gli amministratori dell’Ospedale di S. Giovanni (proprietari per concessione del papa dell’acquedotto Claudio) si trovavano a corto di denaro, mettevano all’asta un certo numero di archi, che venivano poi demoliti dall’acquirente”
Siamo alla fine del Cinquecento. Eccoli i veri distruttori di Roma, i papi, i nobili, gli architetti al loro servizio, e naturalmente gli intrallazzatori. Altro che barbari o terremoti.
Quasi dappertutto questo massacro è finito con il settecento. A Tivoli no. La cittadina è stata la prima in Italia ad avere un’illuminazione elettrica, inaugurata dalla Società per le Forze Idrauliche il 26 agosto 1886. Ma a che prezzo!
Come Roma, era una città ricca di ville, templi, santuari. Tutto sacrificato alla nuova divinità: l’industria.
Negli edifici non ancora ridotti a ruderi, con il pretesto dell’Aniene, usato come fonte di energia, si installarono fonderie, cartiere e, appunto, centrali idroelettriche. Per arrivare allo scempio del 1925, quando, per costruire due vasche di cemento, quello che rimaneva del tempio di Ercole è stato cancellato.
Sul posto si vedono ancora le tracce di una calcara. Il pensiero che in quel forno abbiano bruciato statue, cornicioni, colonne per farci la calce con cui costruire qualcosa forse di utile, non necessariamente di bello, fa male. Certo, per la storia il processo di riutilizzazione è interessante, ma per l’arte è orribilmente luttuoso. A ogni passaggio, un pezzo dell’originale si perde.
Eppure, che meraviglia quei fantastici marmi che arrivavano a Roma da tutte le province del mondo. E che ancora adesso, riutilizzati, fanno splendere chiese e palazzi. Ma senza dimenticare che ogni blocco estratto, tagliato, lucidato significava sofferenza e morte per uomini condannati a quel vero inferno che erano le cave. Il fatto è che il ricordo degli uomini passa, il marmo dura.
Roma divoratrice, grande ventre che tutto inghiottiva. Solo per nutrire i forni delle terme si sono distrutti i boschi che coprivano il Lazio, poi le zone vicine, poi tutta la penisola. E gli animali per gli spettacoli? Intere regioni completamente scarnificate. E le tante vite spente nel circo in modo barbaro (proprio a Roma!) ma spettacolare, solo per far divertire la plebe lazzarona!?
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