In un'intervista di qualche giorno fa Renzo Piano, bello, bravo e simpatico personaggio della nostra epoca, fra le altre cose parla della sua passione per la barca a vela sulla quale dichiara di rifugiarsi ogni volta che ha mezz’ora a disposizione (e mezz’ora di Piano varrà di certo qualche dollaro) per andare a cercare la solitudine in mare.
Le nostre strade sono lontane. In comune con il bell’architetto noi abbiamo l’età, non certo i gusti. Anche noi ogni tanto andiamo in cerca di solitudine. Ma in terra. Precisamente in terra vecchia. Insomma, alla possente maestà della natura selvaggia con tutta la sua prevedibile violenza preferiamo quella addomesticata dalle tracce, possibilmente secolari, degli uomini. Ecco perché invece di andarcene per mare, venti gelidi e spruzzi salati, con la garanzia di un subbuglio gastrico che rende ogni istante spiacevole, e con niente da vedere se non acqua in movimento (e qui già prevediamo la virtuosa deprecazione dei nostri amici lupi di mare) ce ne andiamo per terra.
Sapeste la magia del vuoto di Veio, Gabii, Lucus Feroniae, perfino Ostia Antica. Nessuno in giro, il sole che picchia, la vegetazione rada e bruciata e le pietre di duemila anni fa che spuntano nella polvere. Rivedere le colonne ancora in piedi, i cornicioni scolpiti in quel marmo bianco che nella luce incandescente diventa osso spolpato. Profumo di mentuccia, e un filo di brezza calda. L’immaginazione che viaggia come non riesce a fare sul mare. Niente manovre con gomene e sartie. Il terreno che non balla sotto i piedi, e un muretto solido su cui sedersi a riflettere.
A Vulci c’è un decimo di quello che si vede al Foro Romano, ma lì uno è da solo e anche se i quattro massi rimasti dicono meno che le colonne di Antonino e Faustina, almeno parlano solo a te, in una campagna dove non si vede una casa o un fienile e per arrivarci si costeggiano sterminati campi di biondo grano, ma altrettanti di pannelli solari. (Si capisce che il contadino che come è noto ha le scarpe grosse, ma il cervello fino, ha scoperto che la coltivazione dell’elettricità rende di più di quella del mais).
Uno dei nostri ricordi più squisiti è ancora oggi quello delle ore che ci prendevamo nei pomeriggi infuocati della Calabria quando, durante il Jazz Festival di Roccella Jonica, mentre musicisti e critici sonnecchiavano, noi andavamo a vagare fra le rovine di Locri Epizefiri, una città magnogreca, a pochi chilometri. Biglietteria in stile Cassa del Mezzogiorno anni ‘50, naturalmente circondata da cumuli di quella speciale e indistruttibile immondezza del sud, quasi archeologica essa stessa. Stagione dopo stagione abbiamo salutato le identiche bottiglie di birra, in identiche immutate posizioni, solo con le etichette ogni anno più scolorite, nelle cunette ai lati della strada.
Però, appena dentro: la magia. Spezzoni cariati di mura trimillennarie, fondamenta di templi e santuari, e in mezzo ai massi, trionfanti come solo loro riescono a essere, immensi alberi di fico carichi di frutti maturi da raccogliere e rimpinzarsi come bambini in vacanza, noi unici vivi in tutta quella arcaicità. Poi è chiaro che andare a farsi stuzzicare da tre ore di jazz risultava piacevole, contemporaneo e umanamente rinfrescante.
Chissà se potrebbe succedere anche oggi che una civiltà sia spazzata via per tanti secoli come è successo a quella romana. Probabilmente no. Troppi sono i documenti in circolazione per eliminarli tutti. Ci vorrebbe una catastrofe globale e la totale sparizione dell’umanità. In questo caso di che preoccuparsi?
39° all’ombra. Nascono certi pensieri…
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