Quelli di noi che erano bambini durante la guerra, si ricorderanno di quando il cibo era sempre più scarso e la fettina di salame da mettere nel panino si faceva ogni giorno più sottile fino a diventare una velina, grazie al virtuosismo delle mamme che riuscivano a dare la merenda a quattro fratelli con quello che prima bastava sì e no per uno.
Lo stesso è accaduto nei secoli bui fino al rinascimento e al barocco, solo che non si trattava di salame, ma di marmo.
Il marmo colorato, bello, raro, che durante l’impero affluiva a Roma in quantità strabilianti: pilastri potenti, colonne monolitiche, architravi massicci, e poi, un po’ sepolto, un po’ bruciato per fare calce, un po’ usato come riempitivo per le fondamenta di palazzi e catapecchie o semplicemente vandalizzato, era diventato sempre più difficile da trovare, proprio come il salame degli anni di guerra.
E così successe che, perduti gli indirizzi delle cave d’origine, scomparsi i mezzi di trasporto per mare e per terra, abolita la schiavitù che metteva a disposizione una forza lavoro illimitata, si cominciò a fare, come si usa dire, di necessità virtù, cioè a riutilizzare quello che ci si trovava sottomano, anzi, di solito sotto i piedi.
Nel riuso, le prime a fare le spese di questa nuova economia obbligata furono le colonne: bei cilindri compatti che bastava affettare come il salame di cui sopra per avere i più variati tondi di infinite misure e colori con cui assemblare tombe principesche, ornare troni papali o geometrizzare sontuosi pavimenti, come questo in S. Agostino (dove è appena finito un radicale, bellissimo restauro. Fortemente consigliata una visita).
Siamo certi che le fette di marmo, cipollino nel caso di S. Agostino, fossero ancora abbastanza spesse (a quell’epoca le colonne si trovavano abbondanti); ma poi, aumentata la richiesta e diventata più scarsa la disponibilità, cominciò la frenetica corsa al taglio sempre più sottile e virtuosistico, perché ogni sbaglio era irreparabile per l’impossibilità di sostituire il materiale.
Così, se oggi uno entra in una qualsiasi chiesa barocca, le cui pareti, gli altari, gli stipiti sembrano di marmo massiccio e, senza farsi vedere dal sagrestano, si azzarda a picchiettarci sopra con le nocche, si accorge dal suono che le lastre colorate saranno sì e no dello spessore di un cartoncino.
Insomma, con un unico pilastro antico romano ben segato e lucidato si riusciva a rivestire praticamente tutto l’edificio.
Con l’eccessivo uso, molto mal digerito dagli appassionati competenti perché considerato di grande volgarità, del cosiddetto taglio a macchia aperta: la pratica di segare e risegare una lastra di marmo seguendone le venature, per poi montare le sezioni in modo da ottenere un naturalistico-fantastico disegno romboidale (in pratica una macchia di Rorschach minerale).
Ulteriore imbarazzante abiezione nel setteottocento: la scagliola, di cui ci sono esempi sulle colonne di S. Maria sopra Minerva. Si trattava di tritare frammenti non altrimenti utilizzabili di marmo colorato, farne una pasta e poi spalmarla sulla muratura e lucidarla a imitazione del vero materiale: roba da poveracci.
E poi, ma forse non meriterebbe neanche una menzione, l’intonaco dipinto a finto marmo di San Carlo al Corso. Le nozze coi fichi secchi.
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