Quasi mai gli riusciva a quei poveri inconsapevoli delinquenti del Medio Evo di concludere bene le loro imprese ignoranti; e alla fine, per sgraffignare un pezzo di marmo, distruggevano tutta una facciata.
Eh già: visto che non avevano la tecnologia per recuperare una colonna sana per poi riutilizzarla magari in una chiesa, l’alternativa era buttarla giù e se si rompeva tanto peggio.
Qui, al Tempio di Antonino e Faustina al Foro, c’è mancato poco. Appena sotto i capitelli delle magnifiche colonne monolitiche di cipollino, di sicuro costate il sudore e magari la vita di chissà quanti schiavi, avevano già scalpellato i solchi per farci passare le corde, così che non scivolassero, per poi aggiogarci un paio di buoi e tirare giù tutto. Dev’essere successo un imprevisto se non ci sono riusciti. Chissà quante altre volte è finita diversamente, almeno a giudicare dai mille frammenti che riempiono Roma.
E non è che alle statue andasse meglio. Il museo Centrale Montemartini è pieno dei dolenti cadaveri di Bacchi, Apolli, Mercuri di squisita fattura ed eleganza suprema ritrovati in pezzi e poi ricomposti.
E dove li hanno trovati? Nel parco rinascimentale di Villa Rivaldi, di fronte alla Basilica di Massenzio, quando l’hanno eliminato per fare Via dell’Impero.
Proprio così: spaccati a colpi di mazza per servire, come materiale inerte, da riempimento ai muretti delle aiuole. Insomma l’arte che non era già finita bruciata nelle calcare la buttavano nel pietrame, tanto per fare massa.
Per giudicare un delitto ormai prescritto bisognerebbe identificare i rei. Vediamo. Da una parte c’erano i committenti: signorotti dell’epoca buia, ma anche abati o commercianti arricchiti a cui interessava solo occupare uno dei tanti spazi liberi in mezzo alle rovine della grandezza classica e farsi il palazzetto, il monastero, la bottega, arraffando e riutilizzando a casaccio tutto quello che trovavano nei dintorni.
Dall’altra i muratori, in fondo colpevoli solo preterintenzionali (che ne sapevano di arte?), ai quali bastava avere una pietra da mescolare con la malta, e neanche si accorgevano che quel sasso era un braccio, un piede, una mano.
Intendiamoci, più tardi arrivarono anche nobilastri o cardinali che invece di accontentarsi delle discariche storiche non esitarono a demolire i monumenti imperiali ancora in piedi per rapinare qui una colonna, là un ricco cornicione con cui adornare il palazzo di famiglia o la basilica.
E già che c’erano, queste brave persone ci provavano anche a recuperare i magnifici dischi di marmo che coprivano i pavimenti, per esempio del Foro della Pace, naturalmente spaccando tutto. Perché, come si può immaginare di estrarre un fragile tondo di due metri a colpi di martelli e scalpelli senza mandarlo in briciole?
Per fortuna che con i relitti di questa catastrofe, parecchi secoli dopo degli abili artigiani trovarono il modo di comporre infinite serie di geometrie giocando con i colori e le forme. Erano nati i pavimenti cosmateschi.
Rimane il doloroso pensiero di quanto ha perso l’arte nel barattare un intero perfetto disco di pavonazzetto con un mucchio, anche se abbondante, di sassolini colorati, ma che ci possiamo fare?
Continua alla terza udienza.
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