La torre del fiscale appena fuori città in direzione sud est è un bell’esempio di riassegnazione storica accompagnata da una ripida, anche se non rapida, discesa del livello di destinazione.
Si parte dal nobilissimo acquedotto Claudio, simbolo di una grandiosa missione, apportatore di acqua salubre per la città, sospeso su decine di maestosi archi in tufo, in seguito diroccati perché l’Urbe era stata fatta morire (anche di sete) dai barbari che la assediavano, proprio con il taglio degli acquedotti.
Qualche secolo dopo, ormai persa la sua funzione sanitaria e sociale, ma non la superba robustezza architettonica, la struttura, da apportatrice di salute, viene riassegnata alla funzione di controllore della paura che nel medio evo si sostituisce alla tranquilla e civile pace romana.
E prende la forma di una torre di vedetta, costruita sugli archi del Claudio che più tardi verranno incrociati con quelli del Felice, per sorvegliare le mosse dei briganti che all’epoca infestavano la campagna romana, pronti a uccidere per rubare ai contadini, più poveri di loro, una pecora, un sacco di castagne, mezzo barilotto di pessimo vino.
Altri anni di buio e paura e la terra intorno a Roma diventa sempre più una landa desolata piena di malaria e priva di vita. Nelle vecchie fotografie in bianco e nero dell’agro romano, fino all’inizio del ‘900, non si vede un albero, al massimo qualche filare di carciofi: tutto tagliato per alimentare i focolari dei pochi, poverissimi abitanti. Una miseria estrema, uno squallore senza fine, reso più malinconico dal confronto con le rovine della passata grandezza.
Ancora anni e la storia continua ad accanirsi su quella landa malarica e pelata. Dopo l’ennesima tragedia, la seconda guerra mondiale, parte l’ultima grande migrazione che porta a una nuova riassegnazione di ruolo della torre e soprattutto dell’acquedotto. Ce la raccontano quelle tristi pareti imbiancate a calce alla sua base: sono i muri delle catapecchie in cui si sono ammassate per anni, fino a non molto tempo fa, le famiglie degli sfollati, reduci dai bombardamenti e dalla carestia che ogni guerra si porta dietro.
Questi poveri padri di famiglia, arrivati dalle campagne con grappoli di figli famelici, si fermavano ai margini dell’abitato e, dove trovavano un muro a cui appoggiare le altre tre pareti e il tetto, ci si costruivano la baracca.
In mezzo alla campagna gli unici muri ancora solidi a disposizione erano quelli dei pilastri degli acquedotti, e i soffitti erano gli archi. E, come vediamo in questo avanzo di abitazione per fortuna ormai abbandonato, quei poveri straccioni riuscivano perfino, scavando nelle pareti, a ricavarci delle dispense: misere nicchie cariate dove ammucchiare su scaffali inventati le quattro stoviglie e le scarse provviste della loro precaria cucina.
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