Distrazione. Pochissimi se ne accorgono, perché pochi alzano gli occhi. A Piazza Fiume, proprio sopra il parcheggio dei taxi, sulle Mura Aureliane c’è una latrina militare dell’epoca (III secolo d.C.), molto ben conservata.
E’ un casottino montato su due mensole che sporge in alto dalla muraglia, con un semplice buco sul fondo, sotto il quale si allarga sul muro una bella traccia di corrosione, a giudicare dalla quale il rancio della guarnigione doveva essere piuttosto sul pesante
Facile immaginare il fetore di questi bugigattoli (ce n’erano parecchie decine lungo tutto il perimetro), mentre ci sorprende sempre la constatazione che fuori delle mura si stendeva evidentemente la terra di nessuno, un luogo dove si buttava tranquillamente di tutto, considerandola (e forse lo era davvero) una discarica
Paura. Di ritorno da un giro a Gallicano nel Lazio, a Poli, a San Vittorino. Paesi di tufo scuro, castelli minacciosi, mura robuste, porte d’accesso anguste. Quanta paura ci doveva essere nell’aria in quei secoli.
Bisognava rinchiudersi la sera, sbarrare le porte dei borghi e tremare al buio fino alla mattina dopo pregando che non arrivassero i saraceni, o i briganti, o magari proprio il barone di zona in vena di razzie. E così tutti i giorni e le notti. Fino all’arrivo dell’elettricità che magari non ci avrà liberati dalla paura della vita, ma da quella del buio, sì.
Ruderi. Spesso i contorni degli anfiteatri romani sono svelati dalla presenza di alberi, di solito querce, che ci crescono sopra. Come mai proprio lì? E’ che spesso la pianta nasce da una ghianda nascosta da qualche scoiattolo per mangiarsela più tardi, e poi dimenticata. Vengono su bene perché così in alto sono al riparo da capre e pecore.
Questo è il bello spirito di sopravvivenza della natura, che ci commuove nei documentari. Il brutto è il disastro che le radici dei nostri alberelli, poi alberoni, riescono a fare. Mattoni sgretolati, marmi divelti. Insomma, bastano poche generazioni dalla ghianda originale per ridurre tutto di nuovo in polvere.
Il posteriore dell’elefantino. Queste zampotte, queste chiappone, questa coda che sembra una proboscide nel posto sbagliato appartengono all’elefantino di marmo che regge l’obelisco della Minerva, progettato da Gian Lorenzo Bernini che, a quanto si racconta, aveva in viva antipatia i Domenicani.
All’epoca sarebbe stato a dir poco imprudente manifestare simile sentimento verso quel potentissimo ordine (che fra l’altro aveva in appalto l’inquisizione), e allora il nostro che, in quanto artista, poteva permettersi qualche capriccio, osò, puntando il posteriore dell’animale proprio in faccia (il posteriore, in faccia…) al portone d’ingresso del loro palazzo.
Probabilmente lo scherzo fu benevolmente ignorato o non compreso: fatto sta che a Gian Lorenzo non accadde nulla.
Gioventù Italiana del Littorio. Su Via Parco del Celio, una stradina con vista sul Colosseo, si affaccia un bell’edificio appena restaurato, di cui ci sfugge la destinazione. Fatto sta che sulla facciata risplende, fresca di vernice e così perfettamente leggibile che sembra fatta ieri, la scritta Gioventù Italiana del Littorio. E appena sotto si intravede un’altra scritta che dice Opera Nazionale Balilla.
Come luogo siamo a Roma, non ci sono dubbi, ma come data ci dobbiamo essere sbagliati: credevamo di essere nel 2022, e invece è ancora il 1938.
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