In tutto il resto del mondo le radici stanno ben piantate nel profondo della terra per sostenere il vigoroso albero della civiltà e della storia.
A Roma no. Nooo! Da noi gli alberi che prima, sì, erano ben saldi, a un certo punto hanno cominciato a rovesciarsi, ma mica ieri: anni e anni fa, per un temporale, per una sventolata, qualunque la causa; e poi, tagliato il tronco e le fronde, sono rimaste queste evidenti, ingombranti e simboliche radici a cuocersi al sole e ad ammuffire alla pioggia.
Per fortuna questa indistruttibilità è spesso contrastata da una bella dose di gusto dell’arredamento da parte dei cittadini, i quali, non potendo contare su una gestione seria di casa loro, sono obbligati a trasformare la situazione in qualcosa di buffo: non saremo civili, ma almeno si ride.
Fra l’altro si tratta quasi solo di relitti di pini marittimi: gli alberi diventati di moda negli anni trenta del novecento, e quindi piantati con dovizia e, bisogna aggiungere con felice scelta perché non c’è chioma che stia meglio accostata con il suo bel verde scuro al colore caldo dei mattoni e del travertino dei ruderi.
Purtroppo però, si tratta di alberi dalla vita relativamente breve (massimo novant’anni, forse cento) e dalle radici poco profonde, per cui, proprio in questo periodo siamo arrivati al gran finale di molte alberature della città che compiono, appunto, quasi un secolo.
Cosa fa in questi casi una non diciamo eccezionale, ma semplicemente normale amministrazione comunale, quando un albero cade per vecchiaia, malattia o incidente? Lo sostituisce.
Evidentemente dalle nostre parti non hanno ancora capito che per piantare un albero nuovo bisogna prima scavare ed eliminare le radici di quello vecchio.
E così ecco che ci troviamo i parchi, le aiuole, gli spartitraffico segnati da trincee dalle quali emergono tronconi irsuti di radici, che sporgono dal terreno come cannoni puntati contro mura turrite, come tavolini da pic nic ben bene rosicchiati dalle piogge e dai parassiti ma forniti di regolamentare bottiglia, come caduti in battaglia che si inchinano in omaggio alla bandiera o al semaforo, addirittura come bersagli da tirassegno (e qui dobbiamo tributare ancora un applauso di riconoscimento allo spirito della popolazione che, magari si sarà anche indignata, ma intanto ha reagito inventandosi qualcosa che fa sorridere).
E comunque, quello che viene fuori dalla nostra ricognizione è l’infinito, immortale e sicuramente indispensabile salvagente dei romani per sopravvivere a Roma: l’indifferenza a quello che decidono in alto.
Tiriamo a campare.
Per chi non avesse riconosciuto i cimiteri arborei fotografati, siamo passati e ci siamo fermati a Piazzale degli Archivi, a Viale delle Mura Gianicolensi e a Piazza delle Cinque Giornate.
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