Il solito è: pizza romana farcita di mozzarella, fiori di zucca e alici; birra e caffè.
Il 13 è il numero del nostro tavolo fisso.
Il locale è l’Appia Antica Caffè dove, ogni volta che possiamo ci trasferiamo in motorino (certo la biga sarebbe più in carattere) per un paio d’ore di archeobenessere sotto quell’ulivo che si vede mentre fa ombra ai basoli bimillenari.
Descritta la destinazione, passiamo a raccontare l’andata (il ritorno di solito è più puntato sul pensiero della siesta a casa in poltrona e quindi meno interessante da dire).
Si imbocca l’Appia Antica, ancora entro le mura, e la si percorre, cercando di non farsi travolgere dal traffico che non ci dovrebbe essere e invece c’è, intenso, e si esce da porta San Sebastiano. Questo è l’unico punto di Roma in cui, appena fuori dalle Mura Aureliane la città finisce veramente, proprio come venti secoli fa, e ci si trova in campagna. Una campagna speciale, di ville seminascoste, trattorie semirustiche e tombe semidiroccate.
Dopo poche centinaia di metri, al bivio con l’Appia Pignatelli ci si può infilare in un cancello che dà accesso a un grandissimo parco di proprietà della Chiesa, quello delle catacombe di S. Callisto.
Uno spazio ricco di qualche sorpresa: la prima che salta fuori da dietro un muro è questo pupazzone bronzeo: San Tarcisio. Sui tre metri d’altezza, non brilla per meriti artistici, ma è accompagnato da una targa che invita alla preghiera e ne narra l’esemplare vita di protettore dei ministranti (non chiedeteci cosa sono).
Si va avanti lungo un bellissimo viale di cipressi e si arriva a una casona, che è la sede del VIS, Volontariato Internazionale per lo Sviluppo, il che sarebbe una notizia di scarso interesse, non fosse che lungo tutta la facciata dell’edificio c’è una delle più belle sfilate di cactus che abbiamo mai visto.
Evidentemente la posizione è perfetta: ottima esposizione al sole, riparo dai venti invernali; insomma, uno splendore di vegetazione desertica.
Con questa spinosa meraviglia il parco di San Callisto finisce e lascia il posto ad altre famose catacombe, quelle di San Sebastiano arricchite dalla bella chiesa omonima.
In cui è conservata quella che è considerata l’ultima fatica di Gian Lorenzo Bernini: un Cristo scolpito a 82 anni, che in noi ha sempre risvegliato il sospetto, forse irrispettoso, di essere un rispettabilissimo falso.
Basta (secondo noi) guardare questa faccia piena di virtuosismo e vuota d’anima. Mai, in nessun ritratto di Bernini abbiamo visto degli occhi così inespressivi, una bocca così molle, una stolidità così marcata.
E poi quei ricci troppo ricci, quel marmo che sembra marmo invece di carne; insomma, nessuna emozione. Quindi non è di Gian Lorenzo.
Ma non siamo arrivati; dobbiamo ancora passare davanti ad altre meraviglie: il Circo di Massenzio, la tomba di Cecilia Metella e il Castrum Caetani.
E finalmente la nostra pizzetta con birra e caffè. E il giornale da leggere in archeobeatitudine.
Cosa desiderare di più (oltre alla pennichella, già in programma, naturalmente?)
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