6 settembre 2022, Sky Arte, guardiamo “I Tre Tenori”: una lunga e ricca trasmissione di ricordi e omaggi a questi campioni della voce, ormai scesi dal palcoscenico.
Aneddoti a bizzeffe: i ragù di Pavarotti, i malanni ricorrenti di Carreras, il multiforme talento di Domingo (che ultimamente pare abbia preso a manifestarsi sotto le gonnelle invece che sul podio; almeno così dicono le cronache).
Sulle voci dei tre non c’è proprio niente da criticare (ma solo quando cantano l’opera!): eternamente giovanile quella di Pavarotti, robusta e autorevole quella di Domingo, delicata ma sensibile e intelligente quella di Carreras.
Invece, che Dio li perdoni quando gli viene in mente di avventurarsi nell’interpretazione di una canzone, magari in duetto con un alter ego, legittimo appartenente alla musica leggera.
E’ il massacro. Questi tenori, con le loro vocione che in quel momento diventano anche stupide, senza un pizzico di leggerezza, si mettono a gridare neanche fossero Mosè che spezza le tavole delle leggi sul Sinai; voci stupende, d’accordo, ma fuori luogo.
Ascoltarli diventa faticoso. Nessuna sensibilità, solo volume. E il direttore e l’orchestra che faticano per trascinarli quando frenano, o frenarli quando scivolano sul tempo. E anche se piacciono tanto al pubblico, per noi, in quel momento, con quelle interpretazioni diventano il peggior prestito della lirica al rock o al jazz. Non perché un cantante lirico non deve abbassarsi a fare le canzonette. E’ che non ne è capace. Non ha quell’indispensabile distacco, non sa cosa sono gli anticipi e i ritardi, non conosce il sottotono, diventa un elefante fra i cristalli. Basta ascoltare “New York, New York” fatto da Pavarotti e poi da Sinatra: due mondi. Uno incanta, l’altro strazia.
E soprattutto gli manca quell’essenziale qualcosa che tutti gli esperti cercano di definire senza mai riuscirci: lo swing. Magari non bisogna neanche dare troppa importanza alla tecnica. Magari conta il cervello, forse l’ugola, certo il cuore dell’interprete.
Vogliamo essere ovvii fino in fondo? E allora citiamolo, il famosissimo titolo: “It don’t mean a thing if it ain’t got that swing”, che noi tradurremmo così: “Non vuol dire proprio niente se lo swing risulta assente”.
Più di trent’anni fa, abbiamo avuto il privilegio di essere invitati a Caracalla al primo grande concerto dei tre, un evento mondanissimo, che poi si sarebbe rivelato l’avvio di un business mondiale.
La sera d’estate, la luna, la brezza tiepida, non ci fecero prevedere quanto in seguito l’iniziativa sarebbe diventata pacchiana; anzi la faccenda ci piacque moltissimo. Ancora ci ricordiamo, in mezzo a tutta quella pompa, un particolare minimo e divertente. Dirigeva Zubin Mehta. A un certo punto, durante uno dei rari pianissimo della serata, su uno dei pini che crescono in platea, una cicala si mise a cantare, inconsapevole protagonista per tutti i diecimila spettatori.
Un paio di volte Mehta dal podio guardò accigliato (o divertito, la distanza non ci permetteva di distinguerne i lineamenti) verso l’albero, ma quella, tranquilla, andò avanti finché tutti ci si abituarono. Neanche ci accorgemmo se e quando smise di frinire.
P.S. Tanto per rimanere in tema, vogliamo ricordare qualche verso di una canzoncina che faceva:
“Alle Terme di Caracalla
i Romani giocavano a palla,
dopo il bagno, verso le tre,
tira tira a me, che la tiro a te.
E poi gridavan: Olè!”
(Clara Jaione, 1950)
E c’è chi rimpiange le canzoni di quel periodo!
Scrivi commento