Nulla da segnalare questa settimana. E allora, invece di fare scena muta vi riproponiamo un articolo di dieci anni fa, esatti, che avevamo intitolato “EINAUDI E GLI SPINELLI”.
Stagione Contemporanea, Parco della Musica di Roma, settembre 2012. Promozione impeccabile, pacchetto ben confezionato; a questo punto, vediamo cosa c’è dentro.
La conferenza stampa di presentazione era stata piuttosto moscia, non per il progetto, interessante, o per l’organizzazione del Parco della Musica, puntuale e corretta, ma perché i tre signori al tavolo: Fuortes, amministratore delegato; Regina, presidente; Pizzo, curatore, sembravano decisi a rimanere in un’atmosfera troppo signorilmente smorzata. Precipitata nel funereo con l’intervento di Einaudi, davvero poco dotato di eloquenza. Continuiamo a pensare che la maggioranza dei musicisti dovrebbe aprire bocca solo per infilarci dentro uno strumento (magari con il pianoforte è più difficile).
Per fortuna a un certo punto, sotto un impossibile cappellino appare la frivola Sora Cesira, personaggio fino a quel momento a noi sconosciuto, ma che siamo poi andati a cercare sulla rete, trovando sul suo blog stupri di canzoni e video famosi, di cui lei stravolge i testi e le voci. Alcuni gustosi, alcuni banali. Il problema è che, una volta trovata una formula, bisogna essere dei geni per rimanerle fedeli e non diventare noiosi. Non riusciamo a capire in che modo possa mescolarsi a questa stagione senza fare impazzire la maionese, ma tutto è da vedere e da sentire, e staremo bene attenti al momento.
Si comincia il 22 settembre con “The Elements” di Ludovico Einaudi, prima assoluta. Accomodati in una buona poltrona di platea, ci troviamo di fronte al solito dilemma: riconoscenza e quindi un occhio di riguardo per gli amici dell’ufficio stampa che ci hanno invitato, o sacra tutela della nostra opinione? Nessun dubbio: siamo grati agli amici, ma, come sempre, ecco il nostro pensiero viscerale e libero.
Il primo colpo d’occhio è magnifico. La sala dell’Auditorium è un’immensa caverna: arcaica per i legni che la foderano tutta, moderna per i ponti sospesi dei fari e le curve fonodinamiche delle superfici. Scenografia essenziale ed elegantissima, con la sapiente esposizione di ogni percussione esistente, più qualcuna di sicuro inventata per l’occasione (più tardi ascolteremo anche lastre di metallo fatte vibrare nell’acqua). Cinque grandi sfere traslucide sospese (che poi vedremo salire e scendere dai cavi e illuminarsi di luci candide) e cinque solisti, quattro percussionisti della PMCE più Robert Lippok, ai comandi dell’elettronica. Tutti in nero, su fondo nero, con i loro strumenti scuri o incendiati di bagliori metallici sotto i fasci bianchissimi dei fari. Festosa l’atmosfera di attesa di un evento che sa già di buona riuscita. Poco a poco il teatro si riempie di un bel pubblico ben disposto. Schizzo di colore quando un burino si affaccia dalla galleria e a gola spiegata chiama un suo compare in platea: “Aho! Poi se n’annamo a cena!” Vabbè, siamo a Roma.
Buio in sala, sapiente riaccendersi graduale di poche luci bianche in tutto quel nero ed ecco che, mentre intuiamo i cinque compagni di avventura, nero su nero, ai loro posti sul fondo, entra Ludovico Einaudi (e qui scusate l’insistenza su un tema a noi caro, l’abbigliamento in scena, inteso anche come rispetto per il pubblico) con addosso la solita giacchetta frusta, la solita maglietta dal colore indefinibile, i soliti jeans sformati; e va a sedersi al gran coda, con la tastiera e quindi la schiena dell’esecutore girate verso il pubblico.
Comodi nel nostro sedile ci lasciamo andare all’ascolto, e a un certo punto, circa a metà della faccenda (che in tutto durerà un’ora e mezza) abbiamo la sensazione che ci manchi qualcosa. La musica va, molto rarefatta, ripetitiva, priva di filo melodico o di sviluppo armonico, anche se ricca di qualche bella sonorità, e noi a nostra volta riandiamo a un nostro momento in India, esattamente trentanove anni fa, sulle rive del Gange, al tramonto, mescolati a un gruppo di fricchettoni figli dei fiori ad ascoltare per ore e ore il sitar di qualche Ravi Shankar improvvisato, convinti di essere a un passo dall’illuminazione. Per renderci conto che la scalata verso il sublime non dipendeva tanto dalla musica, quanto probabilmente dal forte quantitativo di spinelli (se non peggio) consumato durante l’ascolto.
Ecco cosa ci manca in sala: un bello spinello! Peccato, perché dopo questa raggiunta consapevolezza ci siamo trovati ad affrontare altri tre quarti d’ora di suoni rarefatti, ripetitivi, privi di filo melodico e di sviluppo armonico, ma senza nessun supporto psicotropo.
Applausi forti, standing ovation, richiesta di bis, concessi, e fuoruscita di pubblico felice.
E noi, che dire? Non vogliamo certo sostenere che se una composizione non contiene melodie, armonie a contrappunti non ci piace, anzi, le novità, ma quelle vere, che provano a scardinare il sistema ci entusiasmano, forse ci irritano, magari ci seminano la testa di dubbi, comunque ci fanno pensare.
Anche con Einaudi abbiamo pensato, ma soprattutto, dobbiamo confessarlo, agli spinelli sul Gange.
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