Fra i ruderi del palazzo imperiale di Elagabalo, poi passato a Costantino e a sua madre Elena, nei secoli è stata fondata, costruita, risistemata e ancora ricostruita la basilica di Santa Croce in Gerusalemme, una delle chiese di Roma peggio riuscite.
E’ un edificio che, malgrado la storia che lo accompagna, la dovizia di maestose colonne che lo sorreggono, l’abbondanza di splendidi pavimenti cosmateschi, riesce a essere di una freddezza e di una cupezza tale che l’unico desiderio quando ci si entra è scappar via il più presto possibile. Guardare per credere.
Per fortuna, proprio lì di fianco c’è un posto molto più allegro: il Museo degli strumenti musicali.
Che, come abbiamo scoperto il pomeriggio del 18 novembre, è anche un laboratorio di restauro di clavicembali, due dei quali erano parcheggiati sul palcoscenico dell’auditorium del museo, pronti a essere cavalcati per un concerto di collaudo.
Prima si è affacciato il cembalaro che li ha guariti, e ce ne ha raccontato il meccanismo: niente martelletti come nel pianoforte, ma una penna tagliata a linguetta, fissata al salterello, che a ogni pressione di tasto salta su (destino di un nome!) e pizzica la corda.
Penna di gabbiano, caduta spontaneamente e non strappata all’uccello, ha precisato. Grazie: immaginiamo il mite cembalaro alle prese con uno degli enormi e ferocissimi gabbiani che infestano il cielo di Roma.
Lo avremmo perso: lui, non il gabbiano.
Ottima l’esecuzione di Rossella Policardo alla tastiera dei due strumenti resuscitati ed Enrico Onofri alle prese con un violino dalla voce formidabile.
Programma di autori semisconosciuti fine 500 e pieno ‘600: Virgiliani, Fontana, Rognoni, Uccellini e altri, che, ancora una volta, con nostro sempre rinnovato stupore ci hanno messi di fronte all’inquietante constatazione di quanto la musica fosse arretrata all’epoca.
Uno scarno balbettio quasi infantile di fronte al discorso pienamente maturo di tutte le altre forme d’arte contemporanee: architettura, pittura, scultura, letteratura. Dante, Raffaello, Michelangelo, Bernini…
A questo punto vogliamo divertirci un po’, sempre con rispetto, naturalmente.
Il maestro Onofri, imbraccia il violino, comincia a suonare (benissimo, lo ripetiamo) e parte la vaporiera. All’attacco di un tema, in una pausa, nel pieno di un’arcata: una serie di respiri, soffi e sbuffi che neanche il lupo cattivo con i tre porcellini.
Ci torna in mente un’esperienza di anni fa (citiamo una nostra cronaca dell’epoca). “Institutum Romanum Finlandiae, ottima esecuzione di alcune suite di Bach per violoncello. Allo strumento Vito Paternoster. O meglio: allo strumento e all’apparato otorinolaringoiatrico.
Dal bel violoncello antico escono suoni rotondi, corposi, appassionati, ma contemporaneamente in gola al solista funziona a tutta pressione una locomotiva: rantoli, ansimi, profondi sospiri.
In camerino ne abbiamo parlato e Paternoster ci ha convinti che questa intensa partecipazione respiratoria non solo non turba l’ascolto, ma aggiunge tensione e patos”.
Verissimo. Anche l’aria compressa di Onofri a contorno della splendida, potente sonorità del suo strumento non ci ha creato il minimo fastidio, anzi, ci ha coinvolti di più.
D’altra parte basta ascoltare qualche disco di Casals, di Rubinstein, perfino di Errol Garner: è tutto un borbottare, un canticchiare, un ansimare, che di certo non toglie niente alla qualità della registrazione.
A proposito di attività extramusicali durante l’esecuzione, mai guardato la faccia di un chitarrista mentre suona? L’attenzione del cervello è tutta sulle dita, e così i muscoli dell’espressione, non più in controllo, tirano, spingono, ammiccano, sorridono, strabuzzano, spalancano e trascinano il volto in ridicole e talvolta preoccupanti smorfie.
Per non parlare delle boccacce dei cantanti lirici spalancate nei do di petto, sottolineate da un trucco esagerato pensato per le distanze teatrali e impietosamente esposto dai primi piani tv. Grotteschi mascheroni.
Ma sono inezie: quello che conta, naturalmente, è la musica che quando è buona sopporta qualunque interferenza.
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