N° 553 - Prodigio barocco al Gesù

Siamo nel periodo in cui gli editori, nella speranza sempre più fioca di vendere qualche copia, promuovono le loro pubblicazioni.

Ci hanno invitati a due di questi eventi; il primo al Centro Culturale Francese per il battesimo di “Sorprendente Roma”, una guida all’arte nelle chiese con forte accento sul significato religioso delle opere, di Anne Cecile Brame, francese, della Comunità della Fraterna Domus, a cui (al testo, non all’autrice) è mancata prima della stampa una certa attenzione che avrebbe rilevato ed eliminato i francesismi che lo affliggono (fra gli altri quello, molto comune, di appioppare il genere maschile a una parola che in italiano, invece, è femminile, come “arte”). Lo stesso problema che appesta i pannelli illustrativi di Caravaggio nella chiesa lì accanto.

Per l’altra presentazione siamo andati sul profano, scendendo nei sotterranei dello stadio di Domiziano (Piazza Navona) a conoscere “Roma, bella da vedere, magica da raccontare”, un itinerario laico nella storia, nel quotidiano, nella poesia, nelle canzoni e nelle pentole della cucina casereccia romana, anzi romanesca.

Belle foto, begli aneddoti, bei suggerimenti.

Bene, né questi due nuovi nati, specialmente il primo che avrebbe dovuto, né tante altre guide che abbiamo letto accennano a quello che ora vi andiamo a raccontare.

 

 

Il Gesù è la chiesa madre dei gesuiti qui a Roma e il prodigio barocco è qualcosa che accade tutti i giorni alle 17.30 nella cappella di Sant’Ignazio di Loyola.

 

Mettiamo che un pomeriggio d’inverno un viaggiatore, forse diretto a prendere un bus per la stazione, decida di entrare in chiesa, spinto da un impulso mistico, o anche dal semplice desiderio di riposarsi un attimo.

 

Si trova, smarrito, in un antro buio (il tramonto è già lontano). Naturalmente si avvia all’altar maggiore fiocamente illuminato. Si siede in uno dei primi banchi.  

Sono le cinque e mezzo; dal transetto sinistro parte una musica, qualcosa di barocco per coro e orchestra. Il nostro viaggiatore si gira in quella direzione; c’è un altare su cui si intravvede a stento, nella penombra, un quadrone seicentesco con S. Ignazio assunto in cielo. A un certo punto il quadro si illumina e con lui tutta la sontuosa macchina barocca che lo incornicia (alabastro, marmi, onice, ametista, cristallo, bronzo). Entrano trombe e tromboni che annunciano il trionfo, ma ancora non sappiamo cosa succederà.

Invece le luci si abbassano e così la musica. Tornati al buio dell’inizio, intuiamo sull’altare un fatto meccanico che fatichiamo a identificare, ma qualcosa si muove. Bisogna strizzare gli occhi (e seguire lo sprofondare graduale di un elemento vistoso del quadro: per esempio lo stendardo rosso triangolare che fa da sfondo alla figura di S. Ignazio) e ci si accorge che la pala è diventata una saracinesca che piano piano cala nel pavimento.

 

Questa discesa è quasi impercettibile; il trucco funziona proprio per questo; un esempio della grande sapienza scenica barocca (bisogna pensare che a suo tempo lo spettacolo era senza elettricità, senza riflettori, senza musica registrata. Giusto un paio di chierici appesi a due carrucole e qualche moccolo acceso; eppure con le sole candele e un probabile coretto di confratelli doveva funzionare molto bene anche allora). 

Dopo questo intervallo di penombra, carico di suspense, le fanfare e i cori raddoppiano all’improvviso, si accendono tutti i fari, e dietro la paratia sprofondata appare il prodigio: una nicchia scintillante di gemme e lapislazzuli in cui domina in trionfo una prodigiosa, è il caso di dirlo, statua di S. Ignazio, tutta d’argento.

 

Per la precisione: la statua era d’argento massiccio fino all’arrivo dei francesi di Napoleone, fine ‘700. Poi deve essere successo qualcosa perché da allora non è più risultata d’argento, ma di stucco (argentato).

Insieme alla nicchia s’illumina tutta la chiesa che, da buia, diventa anch’essa splendente di ori e stucchi. Musica a palla con il sostegno del naturale eco delle volte (sempre cori e orchestrona barocca) e il miracolo si compie in gloria.

 

Siamo convinti che dopo un’emozione del genere, il viaggiatore che per la meraviglia si sia trattenuto più del previsto, sarà anche contento di aver perso il treno.

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