Il Circo Massimo è sempre presente nella vita dei romani, nella normalità e nell’emergenza; la normalità è il traffico, l’emergenza è sempre il traffico, che però si spalma tutto intorno, senza perdere di viscosità, quando ci sono i concertoni: di Capodanno, di Ferragosto, e di altre feste comandate. A questo proposito, l’ultimo pettegolezzo, ormai superato, che ci ha tenuti con il fiato sospeso è stata la trepidazione sulla presenza, il 31 dicembre scorso, della cantante Madame, una poveretta che si era fatta coinvolgere in qualche piccola truffa sulle vaccinazioni anticovid. Una no vax scandalosa, poi perdonata e riammessa sul palcoscenico. Robetta.
Però, che caduta di stile rispetto ai vecchi fasti.
Certo il mattone invecchia meglio del cemento, i millenni danno dignità a qualunque struttura; vedere queste rovine rosseggiare nel sole del pomeriggio al di là della fossa del Circo Massimo riempie gli occhi di chi passa con la maestà della grande architettura imperiale. Eppure quella fila di doppi archi che si stagliano impettiti sulla destra, sono ciò che resta di una vera a propria violenza al paesaggio da parte dell’imperatore Settimio Severo.
Il quale, essendosi fatto venire la voglia di ampliare il complesso dei palazzi di abitazione e rappresentanza imperiali che già coprivano diversi ettari, evidentemente non abbastanza per lui, ed essendo ormai esaurito lo spazio sul colle Palatino, pensò bene di prolungarlo, il colle, e sostituire il terreno mancante con questa pesante quinta di mattoni: una piattaforma sulla quale poi edificò effettivamente la sua nuova ala.
Tutto il marmo, i bronzi e gli altri materiali preziosi se ne sono andati, rapinati dagli straccioni del medio evo, ma anche da illuminati papi del Rinascimento, come Sisto Quinto, che non si fece scrupolo di scippare le ultime colonne rimaste in piedi per riutilizzarle nel Fontanone; bene, certo, ma senza rispetto per la loro storia.
Oggi di quel gran corpo solenne rimane lo scheletro, in origine destinato a starsene nascosto, che ancora ci affascina con la sua molto restaurata imponenza. Ma sempre un ecomostro è.
Il Claudio è di sicuro il più maestoso e bello di tutti gli acquedotti romani. Anche se è lui il secondo ecomostro vintage che vogliamo raccontare. O meglio, non è lui nella sua versione originale: una infinita fila di archi, perfetta opera d’arte ingegneristica messa insieme senza neanche un cucchiaino di calce, con massicci conci di tufo tagliati tanto bene che ancora adesso sembrano saldati.
L’ecomostro nasce quando il capolavoro originale, insieme all’Impero, comincia a vacillare. Passa un secolo, ne passa un altro, gli archi, per quanto ben costruiti, cedono ed ecco apparire i rinforzi in mattoni e malta che, d’accordo, ne rovinano l’estetica ma almeno li tengono in piedi.
Con gli acquedotti ormai senz’acqua, quei macigni tagliati così bene, si sono trasformati in un ghiotto bottino per tutti. E allora inizia lo smantellamento: i rinforzi di mattoni, inutilizzabili, rimangono ma i bei massi di tufo, assolutamente non ottenibili con la misera tecnologia del tempo, cominciano a scomparire.
E così miglia intere di quella maestosa opera svaniscono, ma lasciano un’immagine precisa, come in questo tratto vicino a Tor Fiscale, dove i grandiosi archi di tufo non ci sono più, ma ne è rimasta la traccia, nella forma dei sostegni che non sostengono più niente, residua massa smozzicata di mattoni e calce.
E finalmente ecco la perfetta testimonianza finale della grande rapina: questo rudere ancora in piedi a Porta Furba.
Che è un arco isolato dell’Acquedotto Claudio. Cioè, lo sarebbe, perché l’arco non c’è più. E’ rimasta la sua impronta in negativo: i muri di emergenza in mattoni costruiti a sostegno dei pilastri, che mostrano ancora l’impronta dei famosi tufi così ben tagliati, e la curva, sempre in mattoni, su cui poggiava l’arco a sostegno del condotto dell’acqua.
Praticamente l’ombra di un lavoro di giganti sbriciolato da insolenti implacabili formiche.
Ma l’idea è ancora lì, intatta e maestosa.
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