Liszt da bambino era così fragile che un giorno svenne, lo credettero morto e chiamarono il falegname del villaggio per le misure della piccola bara.
Papà era un musicista dilettante che capì subito le doti di Franz e le sostenne, tanto è vero che appena possibile si trasferì con la famiglia a Vienna, lui uomo di mezzi limitati, affrontando un bel rischio finanziario per permettergli di studiare con Salieri (l’eterno Salieri che all’epoca era dappertutto).
Poi, a Parigi.
Fin da subito Liszt non lascia dubbi sulla sua naturale disposizione per il pianoforte e sulla sua fortissima capacità di improvvisazione; la voglia di comporre arriverà più tardi. Alla fine di un trionfale concerto di lui dodicenne, Beethoven corre ad abbracciarlo sotto gli occhi del pubblico che applaude.
Parigi gli dà mille stimoli, fra cui l’incontro con Paganini, che con l’esempio della sua stregonesca abilità sul violino lo spinge a inventarsi una tecnica altrettanto funambolica sul pianoforte. Quando Liszt lo vede suonare rimane annichilito dal suo aspetto diabolico, dalla sua fama e dalla sua bravura sovrannaturale, e pur essendone affascinato finge distacco: “Un io mostruoso come il suo non può essere che un dio solitario e triste” (com’è facile sparare sciocchezze a diciott’anni!).
Dopodiché, siccome in realtà non è scemo, capisce che dietro non c’è niente di satanico ma solo fatica e disciplina, e si mette al lavoro anche lui.
La città gli dà anche la lingua francese, che da allora in poi diventerà la sua per tutta la vita; e ancora più importante, gli mette a disposizione il terreno su cui seminare la sua nuova idea di spettacolo musicale (sostenuta anche dall’amicizia e dall’esempio di Chopin): il recital per pianoforte solo, un tipo di concerto fino a quel momento mai praticato da nessuno e ora pronto per il pubblico francese.
Così diventa il simbolo della musica della sua nazione, l’Ungheria, e le dà un’identità, proprio attraverso questa musica (oltre a regalarle, con i guadagni dei suoi concerti, un nuovissimo Conservatorio). E’ il campione di una tecnica virtuosistica e sanguigna, in grado di elevare a una dimensione eroica uno strumento che in fondo era ancora nuovo: il pianoforte.
Insomma, fa nascere intorno a sé quella che da allora si chiamerà “Lisztomania”.
Poi c’è il turbine mondano, erotico, avventuroso che fa quasi tanto rumore quanto il successo artistico. Si spettegola, fra i tanti, dell’incontro con la Contessa Marie d’Agoult che per lui abbandona il marito e le due figlie e con lui comincia un inarrestabile giro di teatri e città: Venezia, Milano, Firenze, Roma, poi tutta l’Europa in un vortice di passioni, concerti, trionfi, riconoscimenti e figli (tre, fra cui la mitica Cosima Liszt, poi Cosima von Bulow, e per finire (male) Cosima Wagner).
Incontra un personaggio discusso, che presto diventerà pericoloso anche per lui: Richard Wagner. Costui gli si manifesta con una prima lettera, tale da mettere in guardia chiunque: “Eccellente amico, ecc. ecc.…io navigo in cattive acque e mi son detto che voi potreste venirmi in aiuto…ho intrapreso la pubblicazione delle mie tre opere…la somma occorrente si aggira sui cinquemila talleri. Potete procurarmela?” Uno scroccone professionale di altissimo livello, causa della rovina di industriali e re. Listz è un suo ammiratore e ci casca in pieno. E continuerà malgrado le truffe e gli inganni dell’altro, a sostenerlo. Un esempio di superiore onestà artistica (e di ingenuità).
Nel 1844 fine della passione con la Contessa. Passa a una nuova storia con la Principessa Carolyne zu Sayn-Wittgenstein e con lei si installa a Weimar, dove estende la sua attività all’insegnamento con fior di allievi eccellenti, troppo numerosi per elencarli tutti.
Poi ricomincia a girare e non si ferma da nessuna parte. Finché…
Finché a Roma, verso il ‘65 un nuovo richiamo, religioso questa volta, prende forma. Liszt passa un lungo periodo di ritiro nel Monastero della Madonna del Rosario e poi riceve la tonsura e gli ordini minori. Diventa per tutti l’Abate Liszt.
Facile immaginare, data la popolarità del soggetto, le malignità sulla veste del seduttore finalmente sostituita da quella del prete, su un abile trucco per ravvivare l’attenzione del pubblico, eccetera, eccetera. Invece pare proprio che questa vocazione senile sia sincera. Da questo momento tutto il suo interesse di compositore e organizzatore va verso la musica sacra.
Purtroppo Roma non è quell’ambiente internazionale al quale era abituato Liszt il pianista, Liszt il direttore d’orchestra, Liszt il sostenitore della musica nuova.
La sua musica non piace e tutto il resto è muffa camuffata da religione.
In più la sua situazione personale è penosa. La contessa abbandonata sparla di lui, la figlia Cosima, che lui aveva data in sposa all’amico, allievo, quasi figlio prediletto Hans von Bulow, dopo otto anni pianta il marito per mettersi con Wagner, quel grande musicista che lui tuttora stima, ma che è anche un bell’opportunista. I due si sposano e lui lo viene a sapere dai giornali. Un dolore e un’offesa.
Finalmente accetta uno dei ripetuti inviti del granduca Carlo Alessandro per tornare alla sua brillante posizione di responsabile di tutta la musica a Weimar e così, vecchio e con la tonaca ma sempre in grado di affascinare principi e contessine, guida la vita musicale di Weimar per molti anni ancora e muore per una bronchite presa in treno mentre va a Bayreuth, alla rappresentazione di un’opera di Wagner, ormai morto da tre anni, a cui lui aveva fatto tanto bene per esserne poi così indegnamente ricambiato.
Il suo pianoforte preferito, che lo accompagnò in gran parte del suo percorso era un Boisselot, del quale scrisse: “Sebbene i tasti siano quasi consumati dalle battaglie combattute, non accetterò mai di cambiarlo e ho deciso di tenerlo fino alla fine dei miei giorni come collaboratore di lavoro privilegiato”.
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