E’ il compositore più ricco di tutta la storia della musica.
Ma aveva cominciato come un galoppino in quello che, all’inizio del secolo scorso, era il sottobosco della musica popolare: Tin Pan Alley.
Un nome che letteralmente significa “Vicolo della Padella di Latta”, forse per lo strepito metallico delle pianole di quell’epoca, e identificava l’ambiente dell’editoria musicale di New York, raggrumato nella Ventottesima Strada, fra la Quinta e la Sesta Avenue.
Dove, in mancanza di altri mezzi per lanciare le nuove canzoni, c’era una miriade di stanzette dotate di pianisti tuttofare che le strimpellavano su pianoforti sgangherati per farle ascoltare a impresari, ballerini, cantanti e registi di musical.
Lui, figlio di una coppia di immigrati ebrei russi, è uno di questi pianisti.
Ci arriva dopo un po’ di lezioni sorbite di malavoglia. Comincia a quindici anni per quindici dollari la settimana. Riesce quasi subito a pubblicare una sua canzone che ha un piccolo successo.
Così sale il primo gradino che gli permette, arrivato a 18 anni, di portare il suo stipendio a 35 dollari, ma soprattutto di cominciare a scrivere sapendo che qualcuno lo ascolterà.
Altri due o tre tentativi, poi il botto: “Swanee”, incisa da Al Jolson, è prima in classifica per 18 settimane e lo spartito vende un milione di copie.
Inizia a collaborare con il fratello Ira che fa il paroliere, cambia nome d’arte diverse volte e, di successo in successo, arriviamo al 1924 quando, si dice in sole tre settimane, a soli venticinque anni, e da solo (ma con l’orchestrazione di Ferde Grofé perché proprio tutto da solo ancora non ce la fa) compone la “Rapsodia in Blu”, che debutta davanti al mondo culturale e artistico di New York, presenti Rachmaninoff, Stravinskij, Haifetz, con un successo fenomenale.
Stiamo parlando di Jacob Bruskin Gershowitz, ma ormai possiamo chiamarlo con il suo nuovo e definitivo nome americano: George Gershwin.
La Rapsodia non solo lo lancia in tutto il mondo, ma lo fa volare un po’ più in alto degli altri autori perché non è una canzonetta, non è un musical, non è un cabaret: è una composizione classica con la quale si entra nel repertorio rispettabile.
Lui ci tiene a essere considerato un musicista completo, secondo la tradizione, capace non solo di inventare i temi ma anche di scriverli per tutti gli strumenti e nel 1925 lo fa, stavolta veramente tutto da solo, orchestrazione compresa: il “Concerto in fa”.
Intanto continua a sfornare commedie musicali, piene di canzoni orecchiabili, una più bella dell’altra e soprattutto capaci di reggere centinaia di repliche che riempiono i teatri degli USA e il suo conto in banca.
Ma anche per lui è arrivato il momento speciale della vita: deve fare il grande passo. Un bel giorno fa le valigie e parte con il fratello per la Francia per diventare un compositore vero.
Che strano, nelle biografie di tanti artisti americani a un certo momento della loro vita si affaccia questo piccolo (o grande) complesso di inferiorità, questo debito, nei confronti della cultura, quella vera, che per i cittadini dell’ex colonia viene dall’Europa. E allora fanno le valigie e partono per il vecchio mondo per andare a pagarlo, quel debito.
Ma George proprio non ci riesce perché tutti i più rinomati professori lo accolgono sì a braccia aperte ma rifiutano di dargli lezioni: non vogliono inquinare con il rigore del passato la sua spontanea vena jazzistica, che tutti riconoscono immediatamente come roba fresca, di un mondo nuovo.
C’è addirittura il famoso aneddoto di lui che chiede a Ravel di insegnargli l’orchestrazione, e Ravel gli risponde: “Perché volete diventare un Ravel di seconda mano, quando siete già un Gershwin di prim’ordine?”
Naturalmente a Parigi scrive “Un Americano a Parigi”, e naturalmente anche questo è un successo strepitoso.
Poi, forse dispiaciuto per non essere riuscito nella sua missione di umiltà, ma forse anche convinto (a forza di successi) di avere raggiunto il livello superiore, se ne torna a casa per continuare a macinare musical milionari.
E ancora una volta supera sé stesso con “Porgy and Bess”, l’ultimo grande esempio mondiale (e il primo americano) di melodramma.
Nel ‘36 va a Hollywood per tentare di scrivere le colonne dei primi film sonori. Ci riesce benissimo, ovvio, anche se piano piano cominciano ad arrivargli i segnali della presenza di colleghi pericolosamente dotati. Si chiamano Cole Porter e Irving Berlin.
Ma non avrà mai la possibilità di sfidarli perché l’anno dopo appaiono i sintomi del tumore al cervello che lo ucciderà presto: orribili mal di testa e una continua sensazione di sentire odore di gomma bruciata.
Muore a Hollywood a 38 anni, dopo un’inutile operazione; cinque mesi prima del suo amato, irraggiungibile maestro, Ravel, anche lui portato via da un cancro al cervello dopo un inutile intervento.
Nel 2005 il “Guardian” fa una stima di tutto ciò che Gershwin ha guadagnato (e continua a guadagnare) e certifica quello che già sappiamo: è il compositore più ricco di tutta la storia della musica.
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